LA TRAPPOLA
TUTUTUMPH!
“Aaaaaaaah!”
Erano le due di notte quando Guerrino venne svegliato da un tonfo
seguito da grida di dolore. Si precipitò giù dalle scale e lo vide nella buca,
dolorante.
“Chi sei?” domandò.
“Aiuto, prego, aiuto.”
“Ho chiesto: CHI-CAZZO-SEI? Sei un ladro?”
“Aiuto.”
“Te lo chiedo per l’ultima volta poi ti lascio lì a marcire: chi sei, un
ladro?”
“Sì, ma per favore, io rotto gamba, aiuto.”
“Sei solo? Qualcuno ti aspetta fuori?”
“No, io solo, aiuto.”
Quando ebbe la conferma che si trattava di un ladro e che era solo, a
Guerrino parve che una fanfara angelica intonasse una marcia trionfale solo per
lui.
“Aspetta, ora scendo passando dalla cantina e sono lì” disse iniziando
ad eccitarsi.
Guerrino viveva in una casa di campagna molto isolata. Era una casa
abbastanza nuova che aveva acquistato dopo essere andato in pensione. Aveva
lavorato alle Poste per una vita, accumulato un po’ di soldi e smesso
definitivamente di lavorare si era trasferito il più lontano possibile dal
centro della città dove aveva vissuto. Voleva stare solo, isolato dal resto del
genere umano. Era sempre stato un tipo solitario e taciturno. Amava
collezionare soldatini di piombo e libri antichi; nessuno lo aveva mai visto in
compagnia di una donna o insieme a un amico.
In casa, per proteggere le sue collezioni oltre che il denaro che
preferiva tenere nel materasso piuttosto che in banca, contro sgradite
intrusioni aveva progettato e realizzato un antifurto micidiale. Alla base della rampa di scale che portava alla zona
notte aveva scavato una buca nel pavimento profonda più di tre metri e
abbastanza larga da farci passare un elefante. Durante il giorno la voragine
era ricoperta da solide assi sulle quali era posizionato il parquet che
rivestiva tutto il salotto circostante. Quando Guerrino andava a dormire la notte
o lasciava la casa incustodita per recarsi a fare compere in città, assi e
parquet venivano rimossi e al loro posto adagiava un foglio di carta con sopra
disegnato un finto parquet che mimetizzava perfettamente la buca.
“Un giorno qualche zingaro di merda ci finirà dentro e allora…” si
diceva praticamente ogni volta che copriva e scopriva la buca.
Un giorno infatti, dopo un paio d’anni che abitava lì, un pesce finì
nella rete. Finalmente il ragno aveva intrappolato la mosca!
Guerrino saltò dunque la voragine e si diresse in cantina, dalla quale
attraverso una porta nascosta dietro a un armadio si accedeva al fondo della
buca dove era precipitato lo scassinatore. Accese una torcia e brandì una mazza
da baseball.
“Dove ti sei fatto male? Fa’ vedere…”
“Qui, a gamba sinistra, non riesco a muovere, aiuto.”
A quel punto Guerrino calò con violenza la mazza sulla gamba sana del
malcapitato.
“Aaaaaah, noooo, ti prego, non fare male a me!”
TUM!
“Aaaaah!”
TUM!
“Aaah, bastaaa!”
TUM!
“Uaaah!”
“Ok basta, ora possiamo ragionare con calma. Come ti chiami?”
“Viorel” rispose piangendo per il dolore.
“Da dove vieni?”
“Romania.”
“Sei uno zingaro?”
“No zingaro.”
“Cosa cercavi in casa mia?”
“Oro, soldi, mangiare, io fame, ti prego perdona me e chiama ambulanza,
non mi importa se poi finisco in prigione, anzi è giusto che io finisco in
prigione.”
Guerrino sparì momentaneamente nella cantina a fianco dove ribaltò un
tavolo, poi tornò da Viorel, lo prese per le spalle e lo trascinò fino al
tavolo.
“Cosa fai?” chiese il rumeno preoccupato.
“Non ti preoccupare.”
Sul piano ribaltato posizionò l’uomo dolorante legandogli gli arti con
nastro isolante ad ognuna delle gambe del tavolo. Intanto il poveraccio, che
sembrava un Cristo crocifisso, gemeva, imprecava, supplicava. Dopo un po’ gli
scocciò anche la bocca.
“Ora ti spiego cosa farò. Anzi, cosa faremo. Faremo un gioco. Si chiama
“Il chirurgo pazzo”. Tu ovviamente sei il paziente e io il chirurgo pazzo.”
“Mmm… mmm… mmm…” faceva Viorel imbavagliato. Gli occhi rivelavano un
panico crescente.
“Voglio essere subito sincero, per non illuderti. Le probabilità che tu
esca vivo da questa cantina sono una su dieci miliardi. Ma se ti può fare stare
meglio, pensa che dopo non soffrirai più. Torno subito…”
Guerrino tornò di sopra. Prese un vassoio dalla cucina e vi mise sopra
alcuni coltelli di varie dimensioni, forbici, cotone, disinfettante e un
vibratore che recuperò dalla camera da letto. Prima di tornare giù in cantina
ricoprì con assi e vero parquet la buca.
“Rieccomi qui amico mio. Non sai quanto sono eccitato. Guarda qua!”
disse mostrando il rigonfiamento sulla patta del pigiama. “Vuoi dire qualcosa?”
“Mmm… mmm…”
“Ah già, è vero che non puoi parlare. Immagino che tu abbia detto:
“Comincia pure!” Ok, come vuoi.”
Il chirurgo pazzo prese le
forbici e tagliò i vestiti del paziente.
Lo lasciò completamente nudo con indosso solo le calze e le consunte scarpe da
tennis. Con il cotone imbevuto nel disinfettante strofinò il corpo tremebondo
del prigioniero terrorizzato, soffermandosi in particolare sui genitali.
“Mi piace il tuo cazzo. Sai, voglio darti una possibilità in più di
salvezza: se ti si drizza in queste condizioni potrei pensare, forse, di
risparmiarti.”
Detto questo si sdraiò e prese in bocca il pene moscio di Viorel, i cui
occhi erano ora una cascata di lacrime. Guerrino succhiava e leccava con
bramosia. Lo fece per cinque minuti poi si stancò.
“Immaginavo. Mi sarebbe piaciuto succhiare il tuo bel cazzo in tiro.
Peccato. Vuoi vedere il mio? Guarda, tra un po’ scoppia.”
Si tolse il pigiama, denudandosi completamente.
“E adesso… Operiamo!”
Con un coltello incise una croce sui capezzoli di Viorel, dai quali
cominciò a sgorgare sangue.
“Mmm… mmmmmm… mmmmmmm…” faceva il poveraccio sempre più disperato.
Guerrino l’aguzzino intrise il vibratore del sangue della sua vittima e
glielo infilò nel retto, stantuffando con foga ma anche con fatica dato che si
dimenava come un ossesso.
“Calmati o ti ammazzo! Va bene, ti ammazzo lo stesso, ma calmati.”
Estrasse il vibratore, lo gettò in un angolo e prese un coltellaccio da
macellaio.
“Siamo al clou, amico mio.”
Con una mano tenne teso il pene dell’uomo e con l’altra, con un colpo
netto, glielo recise.
Viorel svenne. Fiotti di sangue zampillarono addosso a Guerrino che
senza neanche toccarsi venne in un orgasmo stordente. Dovette sedersi su una
sedia di paglia lì accanto per colpa del violento giramento di testa che gli aveva
procurato l’emozione.
Ripresosi finì il lavoro. Piantò una ventina di volte un coltello
affilato nell’addome del poveretto che già stava agonizzando.
Passò il resto della notte a fare a pezzi il cadavere per poi
seppellirlo non lontano da casa, in una fitta boscaglia all’interno degli
argini del fiume Reno, che da quelle parti scorreva putrido e sonnacchioso.
Non chiuse occhio per tre giorni di fila dopo quella volta. Ogni notte
andava a letto sperando di sentire un grido provenire dalla buca. Era molto
speranzoso che sarebbe ricapitato prima o poi: zingari, immigrati clandestini,
disperati, drogati, crisi economica, degrado, povertà… Guardava il telegiornale
con un ghigno diabolico stampato sul volto. Sì, lo sentiva, presto qualcun
altro sarebbe caduto nella sua trappola.
MISTER MILF
Allenavo i Pulcini della Centese,
quindici bimbi di 9/10 anni con scarsi mezzi ma tanta voglia di imparare e
divertirsi. Modestamente credo di essere sempre stato un bravo
mister-insegnante, soprattutto a livello educativo, e un ottimo entertainer.
In mezzo a quei quindici c’era, come sempre capita praticamente in tutti
i gruppi, la mela marcia: Matteo si chiamava, Matteo Menegardi, per gli amici
Teo. Ogni allenamento richiamavo Teo almeno una ventina di volte, perché
ascoltava poco, non eseguiva correttamente gli esercizi che preparavo, era
svogliato, prepotente, maleducato e disturbava continuamente. Spesso lo mettevo
in “punizione” seduto in panchina o a correre intorno al campo. Ce la mettevo
però tutta per coinvolgerlo, invogliarlo e fargli tenere un comportamento
decente, ma niente da fare.
Di Matteo conoscevo la madre, Luisa, mia coetanea, che faceva
l’estetista a Cento e che si diceva facesse bocchini a iosa, oltre ovviamente a
scoparsi non solo il marito. L’idea del marito cornuto mi divertiva perché il
padre di Matteo, al secolo Cesare Menegardi, era un’emerita testa di cazzo, la
persona più ignorante e triviale che abbia mai conosciuto. Alle partitelle dei
bimbi era il classico idiota che insulta tutti, arbitro, genitori e avversari, che
essendo bambini la dice lunga sul livello neandertaliano
dell’individuo. Lo sentivo spesso insultare anche me, soprattutto quando
tenevo in panchina o sostituivo il figlio.
“Mister da bigliardino” amava urlarmi.
Un giorno, durante una partita di campionato, non ce la feci più e da
bordo campo da dove dirigevo i miei ragazzi mi diressi sotto la tribuna dove
Cesare sfogava le sue frustrazioni di perdente nato.
“Può uscire dal campo per favore?” gli dissi gentilmente. “Qui si cerca
di educare i giovani, non di rovinarli insegnandogli la maleducazione,
l’antisportività e l’ignoranza troglodita.”
Non l’avessi mai detto! Il Menegardi andò su tutte le furie insultandomi
con maggiore veemenza; se la prese anche con gli altri genitori in tribuna, i
quali mi avevano tributato applausi a scena aperta per il coraggioso gesto.
“Mister sei forte Mister sei forte Mister sei forte…” canticchiavano
madri e padri sugli spalti.
Il padre di Matteo scese a sbraitare fin contro la rete di recinzione,
non la finiva più, era un fiume in piena. Così mi avvicinai e gli sussurrai:
“Carino il neo che ha tua moglie vicino alla figa!”
Ammutolì.
La settimana prima, dopo la doccia, avevo convocato la mamma di Matteo
nel mio spogliatoio, che spesso fungeva anche da ufficio. Visto che con
quell’imbecille del padre mi era impossibile parlare, speravo di risolvere
qualcosa almeno con la madre. In effetti qualcosa risolsi, ma non nel senso
pedagogico che mi ero prefissato .
Mentre Matteo faceva la doccia nell’altro spogliatoio con i suoi
compagni, la Luisona, dopo essersi scusata per i comportamenti del figlio con
un “mi spiace ci fa diventare matti non sappiamo come fare con quel monellaccio
di Teo”, mi slacciò la cintura dell’accappatoio che ancora indossavo e mi prese
il cazzo in bocca. Ce l’avevo già mezzo bazzotto immaginando proprio uno
scenario simile. La fantasia divenne realtà. Dopo avermi succhiato il cazzo per
qualche minuto in ginocchio mentre io sedevo a gambe aperte sulla panchina, si
sfilò le mutandine di pizzo nere che portava sotto una gonna blu scuro che le
arrivava alle ginocchia, la alzò (lasciando intravedere il neo) e venne a sedersi
a cavalcioni sopra di me. Mi scopò come una forsennata, venendo con gemiti
sommessi per non farsi sentire dai
genitori che aspettavano i figli fuori. Le sborrai sugli stivali di pelle nera
e mi sentii soddisfatto come poche volte mi era successo dopo il sesso. Luisa
pulì gli stivali con una salvietta, si infilò le mutande, si ricompose un
attimo allo specchio e uscì dallo spogliatoio come se niente fosse accaduto. Ci
misi cinque minuti a rimettermi in piedi, quasi tramortito da quella chiavata.
Il neo che Laura aveva tra l’ombelico e la vagina mi era rimasto
impresso così quel giorno non potei fare a meno di usarlo come arma di
distruzione di massa (cerebrale) nei confronti di Cesare, il quale, dopo
esserci rimasto di stucco, girò i tacchi e se ne andò quasi tremante dal campo
mentre gli altri genitori in tribuna praticamente mi osannavano. L’ottanta
percento dei paparini non lo avrebbe però fatto se avessero saputo che le loro
consorti erano tutte passate almeno una volta nel mio “ufficio”, che spesso
rimaneva aperto anche di notte. Ho sempre avuto a cuore l’educazione dei
bambini, perché il futuro dell’umanità dipende da loro. Ma purtroppo viviamo in
un mondo pieno di figli di troia.
RADIO SHINING
Nel panorama massmediatico underground,
in Italia, Radio Shining è sicuramente la radio più alternativa di tutte.
Quando è uscito il mio libro Pensavo
fosse amore invece era una un cazz’in culo, prontamente la redazione mi ha
invitato nella sede di Bologna per intervistarmi durante il programma
pomeridiano “Overlook Hotel”, condotto da Wendy.
“Overlook Hotel” è la trasmissione di punta di Radio Shining, per cui
ero onoratissimo di essere ospite. Mi ero presentato leggermente ubriaco. Ad
essere sincero ero molto ubriaco, ma
per l’eccitazione ero arrivato alla radio due ore prima di andare on air, così avevo trascorso il tempo al
bar di fianco. Mi aveva accompagnato l’amico-manager Tony, bevitore da guinness
dei primati; una birra tira l’altra un whiskino tira l’altro e al momento di
andare in onda ero fracico. Però alla
fine mi hanno fatto tutti complimenti sinceri, a partire da Wendy che il giorno
dopo mi ha telefonato per dire che avevano ottenuto il record di ascolti e
ricevuto centinaia tra e-mail e telefonate in redazione, per metà entusiastiche
e per metà piene di insulti e minacce. Eh già, era stato un successo!
Siccome non ricordavo benissimo cosa avevo detto, ho ascoltato la
registrazione della puntata sul sito web di Radio Shining. Risentendomi debbo
dire che non sembrava fossi ubriaco. Da sobrio probabilmente avrei detto le
stesse cose, magari con un linguaggio più forbito ma meno verve.
Per chi si fosse perso “Overlook Hotel” di quel giorno, trascrivo i
passaggi più divertenti e interessanti, a mio giudizio.
WENDY: Il pomeriggio ha l’oro in bocca
amici ascoltatori! Oggi a “Overlook Hotel” abbiamo l’onore e il piacere di
avere ospite uno degli scrittori più ironici, irriverenti e surreali degli
ultimi vent’anni, ma che dico venti: ventuno! È qui con noi Simone Manservisi,
autore del recente Pensavo fosse amore
invece era un cazz’in culo. Allora, Simone…
IO: Ciao Wendy, un saluto a tutti gli
ascoltatori di Radio Shining.
WENDY: Per scaldarci un po’ – anche se
non credo ne avrai bisogno visto l’alcol che hai in corpo – cosa ci dici del
tuo ultimo libro?
IO: Che vi posso dire? Potete anche non
comprarlo, tanto il titolo dice già tutto. Ho scritto un libro riassunto
completamente in un titolo.
WENDY: La promozione e il marketing sono
il tuo forte a quanto pare… Un ottimo venditore, complimenti Simone!
IO: Grazie. Comunque posso aggiungere
che parla di sesso e amore trattando gli argomenti con ironia, cercando di
approfondire il lato psicologico e filosofico del tema. Non è la solita cagata
tipo Cinquanta sfumature di grigio che
leggono solo le fighette ignoranti e i maschi impotenti.
WENDY: Qual è la molla che spinge uno
scrittore a scrivere?
IO: Non so gli altri, io ti posso dire
qual è la molla che spinge Simone Manservisi a scrivere: un disperato bisogno
di esprimersi, per dare sfogo alle emozioni nonché al proprio talento. Scrivo
perché se non lo faccio non respiro e se non respiro muoio.
WENDY: Una volta hai scritto: “Se non
scrivessi sarei morto da tempo, oppure sarei diventato un serial killer.” Un
serial killer?!
IO: Non vedi quanta gente impazzisce
perché non dà sfogo all’energia interiore, perché non coltiva le proprie
passioni, non insegue i propri sogni? Se non avessi scritto seguendo il
“richiamo della foresta”, ovvero della mia natura, o anima, il rischio di
finire ad accoppare la gente era concreto.
WENDY: Chi è veramente Simone Manservisi?
IO: È un tipo strano e te lo dico io che
ci convivo da una vita. Ma sai da cos’è data questa stranezza? Dal fatto che in
lui convivono caratteristiche diametralmente opposte, in Simone coabitano una
timidezza e una sensibilità disarmanti insieme a una “smania di spettacolo” e
un egocentrismo illimitati.
WENDY: Spiegati meglio.
IO: Torno a parlare in prima persona…
Vedi, io ho nell’indole una certa spinta all’esibizionismo, ma sono timido,
molto introverso. Senza il freno della timidezza a volte penso che sarei potuto
diventare che so, uno showman, un attore, un comico… Ma va bene così, perché
anche questi contrasti di pregi e difetti, di freni e molle, hanno reso Simone
Manservisi Simone Manservisi. Posso affermare di aver tratto vantaggio dai miei
limiti e handicap; sono un esempio di
resilienza.
WENDY: Dicono anche che tu sia
presuntuoso, quasi megalomane.
IO: Queste sono leggende senza alcun
fondamento. A volte mi diverto a fare il presuntuoso per provocazione. E
comunque sono da sempre convinto che per fare con entusiasmo una cosa – che sia
scrivere, dipingere, recitare o avvitare viti in fabbrica – ci vuole un minimo
di quella sana presunzione che ti fa dire: “sono bravo e lo sarò sempre di
più”. Sentirsi forti è importante per diventare
forti.
WENDY: Cosa ti dà più fastidio di questa
società?
IO: Viviamo in una società alla deriva,
in un mondo di merda. Il virus della follia ha infettato tutto e tutti ormai,
pochissimi sono rimasti immuni. Questa società, nel suo complesso, mi fa
schifo.
WENDY: So che ci sono categorie che ti
sono particolarmente invise. Vuoi elencarcele?
IO: Beh sì… Per cominciare gli
animalisti: mi fanno paura. Penso che chi ama un animale più di una persona sia
un potenziale pericolo per l’umanità… Le frustrazioni e i traumi dell’infanzia
non metabolizzati da costoro, potrebbero esplodere e fargli compiere delle
stragi. Poi mi stanno sul cazzo i
cani che abbaiano quando passeggi facendoti prendere un colpo e quelli che
cagano per strada, che anche se la colpa è dei padroni, io li sopprimerei
entrambi, il cane e il padrone.
WENDY: Esagerato!
IO: Poi ci sono i vegani, i vegetariani,
gli astemi, gli ipersalutisti: mi sembrano persone senza anima, o almeno con
un’anima spenta. Gli juventini! Emblema della corruzione e dell’incapacità
critica che ammorba da decenni l’Italia. E ancora: i religiosi, qualsiasi sia
la loro religione, poveri esseri senza un pensiero proprio, tristi, spenti.
Stesso discorso per gli ultras politici, di destra, centro o sinistra. Nel
ventunesimo secolo non hanno ancora capito che la politica è solo di sopra. E poi gli snob intellettuali!
Quelli che si sentono superiori perché hanno letto Proust, Dostoevskij, Sartre,
eccetera, quelli che se per caso nello scrivere sbagli a mettere un apostrofo
al posto dell’accento ti guardano inorriditi come se fossi un appestato. Ma
andate a fanculo voi e chi non ve lo dice!
WENDY: Super Manser, cos’è che ti fa
l’effetto della criptonite?
IO: A parte la mediocrità e l’ignoranza
umana, se uno mi obbliga ad ascoltare barzellette mi toglie tutte le forze.
Anche chi mi parla di un argomento convinto di avere cognizione di causa e invece
non sa un cazzo rischia di liquefarmi.
WENDY: Fobie?
IO: Uh, quanto tempo abbiamo? Mi ci
vorrebbero due ore per elencarle tutte.
WENDY: Dicci le principali allora.
IO: Tanto per iniziare sono
claustrofobico, faccio molta fatica a stare in spazi chiusi e stretti,
soprattutto se affollati di gente; gli ascensori li evito quando posso e anche
le gallerie autostradali mi mettono una certa ansia. L’acqua alta al mare mi fa
paura, anche perché non so nuotare. Volare, in parte per colpa della claustrofobia,
mi è quasi impossibile. Fino a pochi anni fa ero estremamente ipocondriaco e
paranoico… Oggi, non so come ho fatto, per fortuna lo sono molto meno. Soffro
di vertigini: se guardo giù da un balcone, già al secondo piano, mi gira la
testa e sfrigolano i testicoli. Ho una paura fottuta delle montagne russe e del
calcinculo. Tra gli insetti mi inorridiscono api, vespe e tafani. Tu ora dirai:
“Minchia che uomo!” Oh, questo è il Manservisi. Vuoi che continui? Meglio di
no.
WENDY: Come va la vita sentimentale e
sessuale dell’autore di Pensavo fosse
amore invece era un cazz’in culo?
IO: Va come un cazz’in culo. Non amo da
vent’anni e non scopo da mesi.
WENDY: È un peccato. Uno come te
potrebbe avere donne che fanno la fila…
IO: Macché! Oddio qualcuna c’è, ma non
voglio prendere in giro nessuno. Quando ci sono in ballo sentimenti, nel caso
di rapporti di coppia, o si ama o si corre da soli. Quando cerco di spiegare
questa teoria mi sembra sempre di parlare ostrogoto…
WENDY: Io ti capisco. Belle parole, non
sono da tutti.
IO: Comunque se vuoi metterti in fila
anche tu, giuro che ti metto davanti!
WENDY: Lusingatissima. Magari un giorno
ci andiamo a fare una birra.
IO: Ottimo. A proposito di birre, non ne
avete una qui in studio che comincio ad essere in riserva?
WENDY: Tranquillo Simone, la puntata di
oggi di “Overlook Hotel” è arrivata purtroppo alla fine. È stato davvero un
piacere conoscerti e farti conoscere meglio ai nostri ascoltatori. Come faceva
il buon Marzullo, ti chiedo di farti una domanda e darti una risposta prima di
mandare la sigla.
IO: In un Paese che non legge, pieno di
gente che scrive cagate, come cazzo farà quel geniaccio di Simone Manservisi ad
avere successo? Risposta: un giorno ucciderà il Papa!
OMEN L’ALIENO
Omen era il suo nome, il suo nome da
umano, perché in realtà era un alieno, caduto sulla Terra per sbaglio, adottato
da bambino da una famiglia di un ameno paesino, lo trovarono in giardino dentro
a un’astronave a forma di cono, lo crebbero con amore senza mai fargli mancare
niente, riempiendogli il cuore, solo che un giorno il giovane Omen capì in un
secondo che quello in cui viveva non era il suo mondo, parlava la lingua degli
umani ma nessuno capiva la sua, soprattutto i cristiani, così costruì un
apparecchio, una specie di telefono satellitare perché nel cosmo un messaggio
voleva inviare, magari qualcuno della sua razza lo avrebbe ricevuto e a
prelevarlo un altro alieno sarebbe venuto, la sua impresa però rimase vana, non
fu mai rintracciato da anima sana, così passò il tempo, trascorse una vita di
solitudine e di ribellione benché ricca di appagamento e soddisfazione, le
persone buone gli avevano voluto bene, stimato e rispettato aveva campato,
adesso, prossimo al decesso, si sentì felice lo stesso, dopotutto tornava a
casa, solo il tempo di bere un ultimo espresso.
2024
Quando scrisse 1984 nel 1948, probabilmente George Orwell non immaginava quanto
sarebbe andato vicino ad azzeccare le sue previsioni sul futuro. Ha scagliato
il bersaglio di appena un quarantennio, ma a voler fare un paragone è stato
come se Guglielmo Tell mirando alla mela avesse preso il picciolo da una
distanza di trecento metri. Nell’opera orwelliana il totalitarismo, la
falsificazione, la perdita di memoria storica indotta dai mezzi di
informazione, la corruzione del linguaggio e l’annullamento dell’identità
personale sono temi cardine e oggi, nel 2024, sembrano molto più attuali che al
tempo dei totalitarismi novecenteschi.
Questo stava pensando Wilson dopo aver visto un documentario sul pc
intitolato I figli del Grande Fratello.
Era un file salvato sulla sua segreta – in quanto illegale – chiavetta usb.
Qualche anno prima, nel 2015, si cominciava a respirare una strana aria,
ma nessuno avrebbe mai immaginato una così rapida e radicale svolta nella
società occidentale e successivamente mondiale. Solo nove anni prima sembrava
ancora di vivere in un’Europa libera; ovviamente si trattava di mera apparenza
e solo rare menti illuminate avevano intuito che aria tirava, un’aria foriera
di cambiamenti epocali devastanti.
Anche Wilson usava la tecnologia nel 2015: internet, facebook, twitter,
whatsapp. La adoperava però il giusto, senza farsi prendere troppo. Una volta
era rimasto una settimana senza telefono e aveva appurato con soddisfazione che
non gli era mancato troppo; non gli era venuto un attacco di panico come era
accaduto a sua sorella Jane quando aveva perso l’iphone e non era andato in
depressione come il suo amico Michael quando aveva avuto problemi per giorni
alla linea adsl di casa.
Wilson era uno degli immuni, ma coloro verso i quali la tecnologia
informatica esercitava una debole o nulla influenza rappresentavano una
piccolissima, infinitesimale parte della società. Bastava guardarsi intorno per
notare che non c’era praticamente un solo giovane che non avesse la testa
perennemente piegata sul suo telefono, o tablet, o altra diavoleria elettronica
moderna, a smanettare ossessivamente e a ricevere tonnellate di input al
minuto, input che naturalmente il cervello non poteva elaborare. Per gli adulti
il discorso non cambiava di molto e persino gli anziani cominciavano a non
poter più fare a meno di smartphone e compagnia bella.
Nel 2017 Wilson prese una decisione drastica: decise di staccarsi
completamente dal mondo di internet. A stancarlo fu soprattutto il mondo
dell’informazione che attraverso quei canali arrivava alla gente. Sapeva che le
notizie erano capziose, false, tendenziose, atte a indirizzare la gente verso
opinioni standardizzate e lontane dalla verità.
Questa abiura nei confronti
della Rete lo salvò per qualche tempo, lasciandolo un uomo libero, benché la
libertà comportasse un altissimo prezzo da pagare.
Nel 2020 la popolazione terrestre, escludendo alcune zone dell’Africa
più povera e le lande più sperdute del pianeta, era praticamente tutta
soggiogata, ma fu solo nel maggio 2024 che il Padre Onnipotente – centro
nevralgico dell’establishment mondiale – lanciò il segnale definitivo… Una luce
giallognola illuminò tutti gli schermi di telefoni e computer presenti sul
globo. Gli esseri umani persero così completamente la capacità di pensare in
proprio (che già nei secoli precedenti era stata messa a dura prova dalle
religioni, ora abolite per far posto ad un unico Dio Padre…) trasformandosi in
zombie, schiavi del Padre Onnipotente che li rese innocui e totalmente
manipolabili a suo piacere.
I film, le canzoni, i libri… tutta l’arte di un certo tipo venne messa
fuorilegge e distrutta. In particolare le opere cartacee furono bruciate e la
storia dell’umanità riscritta solo in Rete. Una storia completamente inventata
dal Padre Onnipotente.
Le nazioni sparirono nel 2024, fuse sotto
l’unica bandiera dell’impero mondiale governato dal Padre Onnipotente, il
quale, grazie al calcio, donava un po’ di svago ai suoi sudditi che solo la
domenica riposavano dalle fatiche di una settimana lavorativa sottopagata e
alienante. I campionati erano falsati, già decisi in partenza a tavolino dal
Padre Onnipotente.
Wilson era dunque scampato al lavaggio del cervello perpetrato al 90%
degli esseri umani presenti in quel momento sulla Terra, ma aveva dovuto diventare
una sorta di clandestino, un invisibile, un barbone ostracizzato e disprezzato.
Non volendo sottostare alle regole del Padre Onnipotente, viveva nascosto in
periferia, in un angusto appartamento fatiscente senza riscaldamento. In casa
aveva una libreria ben fornita, una delle poche che probabilmente esistevano
ancora nel mondo e che gli sarebbe costata come minimo la galera se fosse stata
scoperta dalla Polizia Padronale. Campava facendo caricature ai turisti nelle
piazze della città; anche se l’arte, compreso il disegno, era bandita, il
turismo era considerato una risorsa dal Padre Onnipotente, così Wilson non era
ancora incappato in guai con la legge, tollerato perché manteneva vivo quel
minimo di folklore che distingueva la sua città da tutte le altre del pianeta.
Nonostante questo, quell’anno venne promulgata la legge che vietava
tassativamente l’uso di matite, penne e carta, strumenti equiparati alle armi
più pericolose. La carta era comunque già da tempo un bene raro quasi
irreperibile se non sul mercato nero.
Una sera mentre rincasava dal suo solito pub (per fortuna, pensava
sarcasticamente, ci hanno lasciato almeno l’alcol per farci assaporare un po’
di libertà illusoria), appena infilata la chiave nella serratura un violento
colpo alla testa lo tramortì. Si risvegliò alcune ore più tardi in quella che
pareva una stanza d’ospedale, legato con cinghie a un letto sudicio, con varie
flebo infilate negli avambracci ed elettrodi attaccati alla testa
precedentemente rasata. Davanti ai suoi occhi, ai piedi del letto, c’era un
megaschermo.
Partirono le immagini di un telegiornale che descriveva i fatti
quotidiani: il Padre Onnipotente aveva impedito un conflitto nel tal posto, ne
aveva risolto uno nel tal altro, aveva estirpato la mafia qui, creato posti di
lavoro là, costruito un ospedale in un paese, restaurato lo stadio in una
città, eccetera.
Dopo una settimana Wilson tornò a
casa nel suo vecchio appartamento. La libreria era sparita. Sul tavolo della
cucina trovò una scatola contenente una chiave e un telefono cellulare di
ultima generazione. Il telefono si accese automaticamente appena lo prese in
mano e sullo schermo apparve il Padre Onnipotente; spiegò a Wilson che la
chiave era quella del suo nuovo monolocale in centro, affacciato su Corso
dell’Ubbidienza, e l’indomani avrebbe dovuto presentarsi all’ufficio di
collocamento rionale per ottenere un lavoro al C.C.I. (Centro Controllo
Informazioni) direttamente gestito dal Ministero della Propaganda. Un sorriso
apparve sul volto spento di Wilson mentre gli occhi gli brillavano di luce
giallognola. Ora anche lui era un perfetto ingranaggio del Sistema.
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