giovedì 7 settembre 2017

Racconti della raccolta VOLEVO SOLO ESSERE NORMALE (parte 4)


COMA ETILICO


“L’ennesimo coglione che oltrepassa il limite, eh! Come andiamo?”
   “La situazione è stazionaria.”
   Li sentivo chiaramente. Non distinguevo le voci perché il tono sembrava identico e asessuato, ma sapevo che la domanda l’aveva posta il medico in visita e la risposta l’aveva data l’infermiera che lo accompagnava.
   Blaterarono qualcosa che non ascoltai riguardo il contenuto della flebo e le iniezioni che dovevano farmi; mi ero estraniato perdendomi in un mondo molto più grande e incredibile di quello reale. Stavo viaggiando per le sterminate praterie del mio cervello.

   Non sapevo come avevo fatto a ridurmi in quello stato. Me lo avevano però ricordato i discorsi dei medici, del personale ospedaliero, dei parenti e degli amici che venivano a trovarmi, discorsi che udivo a loro insaputa.
   Avevamo festeggiato la morte di Tony. Non che fossimo felici che fosse morto, è ovvio, ma era stato lui a pochi giorni dalla fine a dirci che avrebbe voluto una festa per il suo funerale, e non facce tristi e lacrimose.
   Solo io, Orso, Gnagno e Teresa avevamo colto lo spirito (alcolico) della sua richiesta, così ci eravamo trovati al Sirius subito dopo il funerale. Avevamo iniziato a brindare alla memoria dell’amico scomparso alle cinque del pomeriggio e alle tre di notte ci stavamo ancora dando dentro. Il locale era deserto. Mamo, il proprietario, si era unito a noi offrendo una bottiglia di champagne.
   I miei amici erano tutti su di giri ma non avevano bevuto quanto me. Alle tre e un quarto – stando a quanto diceva Teresa a un’infermiera accanto al letto dove giacevo – avevo tracannato tutto d’un fiato l’ultimo bicchiere di rum ed ero collassato.

   Ah come sto bene qui. Spero di rimanerci il più a lungo possibile. Posso essere chi voglio, fare ciò che voglio. Come nei sogni non so come andrà a finire, però la trama in un certo senso la decido io. Anche quando si tratta di incubi.
   In questo momento sono un misto tra Charles Bukowski e Drugo Lebowski. Siedo su uno sgabello al bancone di un bar di periferia, ubriaco fradicio. La barista mi offre un White Russian porgendomi contemporaneamente un libro.
   “Mi faresti un autografo?” dice timida. “Sai, sei il mio scrittore preferito. Ti leggo da anni.”
   “Certo” farfuglio io con la lingua impastata. “Basta che quando finisci il turno vieni a letto con me.”
   “D’accordo.”
   Il viaggio finisce dopo averla scopata a pecorina in una lussuosa suite d’albergo.

   “Ciao Simone, come stai? Se mi senti, ti prego, torna da noi. Ci manchi da morire.”
   È mamma. La voce è monocorde, potrebbe essere chiunque, ma sento che è mamma.
   “Dai che sei forte. Ce la farai.”
   Questo invece è papà.
   Li lascio alle loro piagnucolose speranze e parto per un altro viaggio.
   Stadio Olimpico di Roma, derby Lazio – Roma. Sono il numero 11 della formazione biancoceleste e sto giocando una grande partita. Il pubblico mi osanna. Parte un cross dalla sinistra, arrivo in corsa e impatto il pallone al volo, che va a infilarsi all’incrocio dei pali facendo letteralmente esplodere lo stadio. Esulto mentre vengo sommerso dall’abbraccio dei compagni di squadra.
   La felicità che provo in quel momento, ne sono certo, non l’ha mai raccontata nessuno scrittore al mondo.

   “Quanto cazzo hai bevuto Mone?! Dioscalzo, se volevi battere il record dei record di sbronza ci sei riuscito alla grande.”
   Mi sembra Orso quello che parla. Me lo conferma Gnagno.
   “Hai ragione Orso. Non ho mai visto un essere umano ingurgitare tanto alcol. Tu Mone non sei normale!”
   Basta vi prego, tornate a casa che io devo viaggiare…
   Parto per la Spagna. Sono un torero. Il toro è un uomo nudo con la vagina al posto del pene e due corna lunghe e affilate che mi ricordano quelle di un triceratopo. Mentre ci avviciniamo per sfidarci noto la somiglianza dello strano essere che ho di fronte con il leghista Salvini. Gli mostro il drappo rosso per provocarlo e lui mi carica. Evito agilmente le sue corna e con un movimento repentino lo infilzo tra le chiappe.
   Il triceratopo Salvini cade a terra stecchito ma dal culo cominciano a fuoriuscire tanti piccoli mostriciattoli: un mini Berlusconi, un mini Renzi, un mini Obama, un mini Putin, un mini Assad, eccetera. Se resto nell’arena so di non avere scampo, così scappo via.

   “Mone Mone, quanto ti ho amato! E tu non mi hai mai cagato.”
   Eccola Teresa. Deve essere per forza sola per dire questo. Non sa che posso udirla.
   “Eppure siamo sempre andati così d’accordo. Non puoi negare che tra noi c’era un’empatia rara. Saremmo stati una coppia perfetta se solo ti fossi innamorato almeno un po’ di me. Invece niente, neanche un bacio, se escludiamo quell’unica volta che siamo finiti a letto da ubriachi. Tu ci hai messo mezz’ora a drizzare e una volta drizzato sei venuto dopo tre secondi, ma vabbè… è stato comunque memorabile…”
   “Mi scusi ma deve lasciare la camera.”
   È arrivata l’infermiera e Teresa se ne va. È l’ora delle abluzioni.
   “Ma che bel pistolino che abbiamo qui” la sento dire. È evidente che nella stanza siamo solo io e lei, nessun’altra infermiera o dottore la accompagna. “Se ti riprendi mi sa che te lo vengo a succhiare una sera. Magari ti invito fuori a cena.”
   Aiuto. Vorrei partire per un viaggio ma non ci riesco.
   “Sistemiamo questo catetere adesso… et voilà… finito. Ora vado mio bel patatino, tra un po’ arriva il dottore a visitarti.”
   Silenzio. Se n’è andata, ma non riesco a vivere nessun’altra esperienza. Silenzio e buio nel mio cervello, e forse anche lì fuori nella stanza che mi ospita.
   “Penso proprio che si risveglierà presto. La ripresa è netta.”
   Le parole del doc non mi fanno nessun effetto. Sto bene dove sono, non mi va di tornare nella realtà dei mentecatti.

   Finalmente riparto per un nuovo viaggio. Sono ai nastri di partenza di una maratona. Ho il pettorale numero 144. Lo starter spara e la gara comincia. Non sono sicuro ma credo di essere a New York; i partecipanti sono migliaia, così come migliaia sono gli spettatori che tifano calorosi ed eccitati ai bordi della strada.
   Corro senza pensare di arrivare primo, anche perché sono molto indietro e tra i concorrenti ci sono molti professionisti. Corro per il piacere di correre. Corro godendomi la corsa. Dopo alcune ore di gara mi affianco a un giovane corridore e gli chiedo: “Ehi, ma quanto è lunga questa maratona? Mi sembra che abbiamo abbondantemente superato i 42 chilometri regolamentari…”
   “Come, non lo sai?” mi fa lui. “Vince chi rimane in piedi per ultimo. Chi si ferma muore.”
   Non approfondisco. Conoscevo anch’io le “regole” alla partenza, ma non so perché le avevo dimenticate.
   Dopo si cominciano a vedere i primi morti sulla strada. Più vado avanti più cadaveri ci sono a ostacolare il percorso. In alcuni tratti bisogna calpestarli per proseguire.
   Sembra che la maratona onirica duri da giorni. Ad un tratto mi sento esausto e vorrei fermarmi, ma un tifoso appostato dietro a una siepe mi grida di resistere, che siamo rimasti in due: io e il maratoneta che mi precede di qualche metro. Il tifo si accende. Chi resta in piedi è salvo.
   Lo raggiungo, entrambi stiamo per cadere, la fatica ha da tempo oltrepassato limiti umani. Ma devo resistere. Ecco che il mio avversario superstite vacilla; fa ancora qualche passo e cade. Con un balzello che mi costa le ultime energie evito che mi travolga. Sono salvo.

   Apro gli occhi. Davanti a me c’è mamma che con il suo sorriso di felicità quasi mi abbaglia.
   “Dottore! Dottore! Infermieraaa!” grida uscendo in corridoio.
   Arriva un’infermiera, forse è quella che mi voleva fare un pompino, ma non ne sono certo. Tra l’altro è un vero cesso.
   “Simone mi senti?” chiede.

   Certo che ti sento, penso rimanendo zitto. Chiudo gli occhi. Vorrei ripartire per un viaggio fantastico ma non è più possibile. Ormai sono nella realtà e l’unica cosa certa è che appena sarò di nuovo in piedi avrò una maratona da correre.


LA STANZA MURATA


Quando il dottore disse che gli rimanevano al massimo tre mesi di vita, la prima cosa che fece Alessandro fu riunire i genitori e i fratelli Samuele e Sara per annunciar loro le sue ultime volontà.
   “Lo so che sembra una follia e se ci penso non riesco a dare una spiegazione logica, ma vi prego, quando sarò morto, oltre a spargere le mie ceneri nei luoghi che mi hanno visto crescere, vorrei che faceste murare questa stanza, la mia camera da letto da quando sono nato. Porta e finestra, così che nessuno vi possa più entrare.”
   I famigliari si guardarono senza lasciar trasparire ciò che in realtà pensavano tutti, e cioè: “Boh, una cosa più assurda non poteva chiederla, ma se è questo che vuole vedremo di accontentarlo…”
   Papà Piero tranquillizzò il moribondo dicendogli che lo avrebbe fatto. Erano i primi giorni di maggio del 1994.
   Alessandro spirò nel suo letto il 17 luglio di quell’anno. Esalò l’ultimo respiro proprio nel momento in cui Baggio sbagliava a Pasadena il rigore che decretava il Brasile Campione del Mondo. L’Italia era in lutto.
   Dopo il funerale Piero fece ciò che gi aveva chiesto il figlio. Lui stesso murò la stanza così com’era, con tutto ciò che conteneva: libri e soprammobili sugli scaffali, foto alle pareti, vestiti negli armadi, carte, documenti, diari e scritti vari nei cassetti. Mamma Paola aveva spolverato e rassettato la camera del giovane scomparso – aveva 27 anni ancora da compiere – fino a un momento prima che il marito cominciasse a posare i primi mattoni, rifacendo il letto come se Alessandro dovesse tornare da un momento all’altro e ripetergli quelle parole che se prima non ascoltava neppure, adesso pesavano sul suo cuore di madre come un macigno: “Dai Ma’, lascia stare il letto che tanto stasera lo disfo di nuovo. Che lo rifai a fare?!”
   Per oltre vent’anni la stanza di Alessandro rimase murata.

   Nel novembre del 2015, nella casa dove aveva vissuto Alessandro con i genitori e i fratelli per tanti anni, abitava Mattia con la futura sposa Jessica. Mattia era figlio di Samuele, il fratello maggiore di Alessandro, che viveva anch’esso lì con la moglie Loretta. I genitori Piero e Paola erano morti a un paio d’anni di distanza nei primi anni del Duemila, mentre Sara si era trasferita a Firenze a convivere con la compagna Naike.
   Mattia decise che era ora di abbattere quel muro che impediva ad una stanza della casa di essere sfruttata. Non ci mise molto a convincere il padre che era una stupidaggine tenere murata la camera dello zio morto ormai da “secoli”.
   “E poi babbo” disse per sgombrare il campo dalle ultime titubanze, “visto che io Jessica stiamo per sposarci, avremo bisogno di una camera per i bambini.”
   Samuele telefonò a un amico muratore che a fine novembre eseguì il lavoro, riaprendo la porta e la finestra murate anni addietro.
   Quando Samuele e Mattia entrarono nella stanza preceduti dal muratore, rimasero tutti a bocca aperta. Sembrava che Paola fosse appena passata a pulire. Ma la cosa più strana – tant’è che più tardi si chiesero se non lo avevano sognato – fu quella specie di aurora boreale che videro apparire nel centro della stanza e che si dissolse dopo una decina di secondi dal loro ingresso.
   Nei giorni successivi Mattia pensò di sbarazzarsi di tutta la roba contenuta nella stanza.
   “Babbo, che ne dici di regalare i libri al tuo amico che fa i mercatini e i vestiti alla Caritas?”
   “Buona idea. Però non gettare i diari e i racconti. Lo zio amava molto scrivere e buttarli sarebbe offenderne la memoria. Comunque decidi tu, ci sono già troppe scartoffie in questa casa.”
   Mattia si mise a scartabellare tra le migliaia di fogli sparsi nei cassetti. Lesse qualche racconto.
   “Che cazzate!” commentò prima di mettere tutta quella mole cartacea in un sacco che sarebbe finito nella spazzatura.
   Passò ai diari. Su quelli si soffermò un po’ più a lungo, perché era curioso di leggere del passato della sua famiglia. Lesse saltando in qua e in là per oltre un’ora poi cominciò ad annoiarsi e ritenne che nemmeno i diari meritassero di essere conservati. Gettò nel sacco anche quelli e chiamò mamma Loretta ad aiutarlo a trasportare il tutto nel bidone della spazzatura. Quella notte riapparve per un istante l’aurora ma nessuno la vide.
   Alcuni giorni dopo Mattia cadde in una profonda depressione. Faceva incubi terribili che non ricordava mai nitidamente al risveglio; gli sembrava solo che fossero ambientati nella stanza di Alessandro.
   Incominciò ad avere paura di quella camera. Le volte che metteva il naso al suo interno gli sembrava di vedere lo zio sdraiato sul letto che lo fissava con sguardo demoniaco.
   Passarono i giorni. Mattia era sempre più depresso e terrorizzato. La mattina della Vigilia di Natale, papà Samuele, non vedendo scendere il figlio per il pranzo, lo andò a chiamare nella stanza che condivideva con Jessica. Lo shock lo colpì come un pugno nello stomaco appena entrò. I pezzi del corpo di Jessica ricoprivano il letto matrimoniale. Sangue e budella imbrattavano pareti e pavimento. La testa della ragazza era appoggiata sul comodino.
   Samuele si diresse sconvolto nell’ex stanza del fratello, come attirato da una forza misteriosa. Socchiuse la porta, che era stata montata giorni prima, e un alito gelido lo investì. Prima di vedere il figlio Mattia sdraiato sul letto, senza vita, con le vene tagliate e il sangue che ancora sgorgava, notò un’aurora fascinosa ma sinistra aleggiare nella stanza. 


SESSSO
  
La relazione con Martina è durata circa quattro mesi. Ci eravamo lasciati una settimana prima, di comune accordo, senza che uno o l’altra dicesse “ti lascio”. Ci siamo semplicemente guardati negli occhi dopo una discussione e abbiamo capito entrambi che la nostra storia era finita.
   Troppo diversi. A volte la diversità può essere un collante potentissimo, non nel nostro caso però. Stavamo bene insieme, eravamo pure innamorati, ma io sono io, un tipo solitario, quasi asociale, in un certo senso egoista, pigro, amante dei libri, geloso dei miei spazi nei quali mi rifugio per riflettere, creare, scrivere; sono uno che ama il silenzio ma anche le atmosfere fumose delle osterie di terza categoria e la compagnia di beoni ciarlieri in vena di filosofeggiamenti. Mentre Martina è Martina: trentenne sportiva, dinamica, pragmatica, lavoratrice instancabile, mondana, amante delle feste fighette, dello shopping e del calcio (tifosa sfegatata del Bologna). Roba lontana anni luce dal mio essere.
   Il nostro collante era il sessso, con tre esse di seguito, indispensabile nei rapporti di coppia, anche se non in grado, da solo, di cementarli. Consci di questo sin dalle nostre prime uscite, io e Martina ne abbiamo approfittato per il tempo che ci siamo concessi, perché quando il sesso diventa sessso bisogna darci dentro alla grande. Il sessso è sesso di livello superiore rispetto al normale. Non che facessimo chissà cosa, anzi, il nostro era privo di stranezze, posizioni ricercate o tempi interminabili, ma che bello! Che sintonia! Che orgasmi!
   Gli orgasmi femminili possono essere recitati a volte (beh, anche quelli degli uomini se è per questo) ma quelli di Martina erano sinceri, eccome se lo erano. Quando venivamo insieme era come entrare in un’altra dimensione per qualche minuto, uscire dal tempo e dallo spazio. E quando rientravamo dal viaggio in orbita rimanevamo accoccolati con un pieno di adrenalina che si sarebbe esaurito solo dopo molte ore.
   Come ho detto, una settimana dopo esserci lasciati rividi Martina. È rimasto il nostro ultimo incontro; dopo lei si è messa con un finanziere mentre io ho continuato la mia vita solitaria, cercando conforto nella mia amica birra, nei fratelli libri e in qualche rara compagnia interessante.
   Quell’ultimo incontro ha lasciato il segno, suggellando un rapporto comunque affettuoso e intenso. Posso definire il sessso che facemmo quella sera come il migliore della mia vita.
   Martina mi aveva telefonato nel pomeriggio per sapere come me la passavo.
   “Perché non ci vediamo a quattr’occhi per fare due chiacchiere?” aveva proposto.
   “Perché no?!”
   “Se vuoi venire a casa mia dopo cena sono sola e non ho impegni.”
   Suonai al citofono di casa sua alle 21 e 30. Appena aprì la porta mi saltò addosso soffocando sul nascere il mio “ciao” con un bacio appassionato. Cominciammo a spogliarci lì sull’uscio, in preda a una voglia animalesca. Spargendo vestiti per tutto il corridoio arrivammo in camera.
   Martina aveva un seno che pareva scolpito, non troppo grande, con due capezzoli rosei e tondi, perfetti. Mi ci attaccai e succhiai avidamente il loro turgore, fino a quando con un movimento repentino mi spinse sul letto e cominciò a leccarmi partendo dal collo, per passare ai capezzoli, poi giù all’ombelico, fino al pene che era ormai duro come granito.
   Mi venne sopra e dopo un po’ raggiungemmo il Nirvana, venendo insieme tra gemiti e sospiri. Non avevamo mai raggiunto un simile livello di estasi.
   Parlammo poco o nulla dopo, rimanendo abbracciati sul letto per un’altra decina di minuti, persi nei nostri singoli universi di pace.
   Salutai Martina conscio che sarebbe stata l’ultima volta che avremmo fatto sessso. Perché? Perché era stato il colpo di coda della nostra storia. Di più, di meglio, non potevamo fare, perché per fare sessso ci vuole l’amore. E il nostro amore era finito.


PARANOIE


Ero sull’autobus da soli dieci minuti e già mi sembrava di impazzire. C’era ancora mezz’ora prima di arrivare a Bologna, ma visto il traffico e la pioggia battente calcolavo che ci sarebbe voluto sicuramente un quarto d’ora in più.
   Ero salito sul mezzo alla fermata di Castello d’Argile alle 13.45 per andare alla presentazione di un’antologia culinaria in cui era pubblicata una mia ricetta; avevo partecipato alla selezione per gioco – essendo un cuoco amatoriale – proponendo il mio cavallo di battaglia: lo sformato di gamberi e patate con salsa di peperoni. Ai curatori dell’opera – un gruppo di chef emiliani – era piaciuto, così eccomi diretto nella location designata, il noto ristorante Giada in via Indipendenza, a comprare una copia di Ricette bolognesi dopo aver ascoltato la presentazione ed aver approfittato del buffet.
   Il problema grave stava nel fatto che ero salito sull’autobus sobrio. Solitamente mi bastano tre birre per trasformarmi in un essere umano normale, psicologicamente stabile, emotivamente equilibrato. Senza alcol in corpo sono un ricettacolo di paranoie, una bomba d’ansia.
   La prima para quotidiana a mandarmi a puttane il cervello era scoppiata appunto quando sul bus, alla seconda o terza fermata, un magrebino dalla faccia losca mi si era seduto di fronte.
   “Cazzo! Questo adesso fa una strage come a Parigi” pensavo. “Chissà cos’ha in quello zaino, e guarda che giubbotto largo che ha! Sarà sicuramente imbottito di tritolo. No, no, non pensarci, è solo uno con una brutta faccia, magari è un pezzo di pane come persona… Non guardalo però, che se gli gira male aziona la cintura esplosiva…”
   L’autobus procedeva a rilento.
  “Magari scende alla prossima, dai che scende alla prossima” ripetevo mentalmente come un mantra per rilassarmi.
   Alla prossima scesi io.
   “Che coglione che sono. Se lo racconto a qualcuno mi fanno internare in un ospedale psichiatrico” mi dissi.
   Adesso mi trovavo a una fermata sperduta tra Argelato e San Giorgio di Piano, con l’autobus successivo che sarebbe passato solo dopo un’ora. Non sarei più arrivato in orario per la presentazione, ma non me ne importava più nulla; la mia reazione paranoica al nordafricano mi aveva messo in uno stato di depressione. Per fortuna aveva smesso di piovere e a trecento metri da dove mi trovavo c’era un bar. La mia salvezza. Mi incamminai.
   Entrai al Bar Egidio e salutai il barista. A un tavolino erano seduti due tizi che bevevano caffè; somigliavano ai fratelli Righeira dei tempi d’oro, solo con lo sguardo più incazzoso. Ordinai una Ceres e un biglietto dell’autobus per tornare a Castello d’Argile. Mentre bevevo la birra seduto su un divanetto mi sentivo osservato.
   “Merda, questi sono sicuro due rapinatori” pensavo sentendo crescere l’ansia. “Adesso tirano fuori la berta e ci fanno secchi per due euro.”
   Tempo due minuti e i Righeira salutarono il barista dimostrando di conoscerlo da una vita, dopodiché uscirono nel parcheggio e salirono a bordo di un furgone dell’Enel.
   Il barista cercò di attaccare bottone parlando di una partita di Champion’s League del giorno prima, ma se c’è una cosa che disturba la mia labile psiche al pari di una paranoia è trovarmi di fronte una persona che vuole parlarmi di calcio, di politica o raccontarmi barzellette. Il rischio di sbroccare a causa di un attacco di panico è elevatissimo.
   Mi venne in soccorso una violenta contrazione intestinale, così chiesi se potevo usare gentilmente il bagno. Mentre espletavo le mie funzioni corporee…

PLOFF!

   Uno schizzo mi bagnò le palle.
   “Porca troia! Mi son scordato di tirare l’acqua prima di cagare… Chissà di chi era quel piscio… Che schifo!... Se non mi lavo subito le palle mi andranno in cancrena…”
   Dopo essermi pulito il culo con la carta igienica ed aver risciacquato abbondantemente lo scroto ero tornato a sedere al tavolino. Seccai la Ceres in un sorso e ne ordinai un’altra. In cinque minuti finii anche quella. Aggiunsi un Campari – ché Ceres e Campari sono le bevande alcoliche più ansiolitiche che esistano – e mi permisi persino due battute sul governo con il barista.
   Lo salutai con un “speriamo che domani la Juve vinca e passi il turno” e mi diressi verso la fermata. Questa volta l’autobus era semivuoto e comunque grazie alle “medicine” che avevo assunto al bar ero assolutamente rilassato e a culo col mondo.
   Quella sera avevo un appuntamento con Luisa, un’amica di facebook che però non avevo mai incontrato nella realtà; non ricordavo nemmeno se le avevo chiesto io l’amicizia oppure se lei l’aveva chiesta a me, fatto sta che alcuni giorni prima ci eravamo messi a chiacchierare in chat accordandoci infine per una birra al Sirius.
   Mi presentai al Sirius bello sereno e ubriaco. Bevemmo un paio di birre a testa e finimmo a letto la notte stessa, a casa sua.
   La mattina fui svegliato da un attacco di cacarella. Sbrigai la pratica velocemente e tornai in camera. Luisa dormiva ronfando pesantemente. Mentre mi rivestivo la paranoia mi assalì.
   “Oddio! L’ho fatto senza preservativo e ‘sta troia è sicuramente una di quelle untrici  che infettano gli uomini con l’aids o la sifilide per vendetta…”
   Uscii di casa senza svegliarla e andai al bar più vicino a fare colazione. Ordinai una Ceres rendendomi conto che dovevo andare al più presto a farmi vedere da uno bravo. Ma bravo bravo.


VOLEVO SOLO ESSERE NORMALE


Fossi stato meno sfigato alla nascita, forse me la sarei giocata alla pari con tutti, che era quello che volevo già da bambino, volevo solo essere normale, invece no, il destino – così lo chiamano – mi ha fatto partire con l’handicap.

   Vengo alla luce un freddo giorno di dicembre con un parto cesareo; pare non avessi alcuna voglia di mettere la testa in questo mondo. Quando mia mamma mi vede, portatole da un’infermiera, caccia un urlo che si sente per tutto l’ospedale.
   “Aaaaah mioddiooooooh!”
   Ho un occhio, un occhio del tutto simile ai due che ho in volto, appena sotto l’ombelico.
   I dottori non sanno spiegare una simile malformazione, non avevano mai visto né sentito di casi del genere.
   Mamma e papà non dicono a nessuno di questa cosa. Mi vogliono bene, ma si vergognano di una tale assurda particolarità. Anch’io, non appena il lume della ragione si accende insieme a quello del pudore, comincio a provare imbarazzo. Al mare, in spiaggia, i bambini giocano in costume e fanno il bagno. Io no, io indosso sempre una magliettina e non vado in acqua.
   “Perché non posso?” chiedo ai miei genitori.
   “Perché hai una malattia lì nel pancino” rispondono, “quando sarai guarito potrai fare tutto quello che fanno gli altri.”
   “Quando guarirò?”
   “Presto, speriamo.”
   Crescendo, senza che mi spiegassero nulla, capivo chiuso nella mia solitudine che quella stranezza o unicità mi avrebbe accompagnato per sempre, condizionando ogni mio passo. Ricordo che verso i dieci anni cominciai a odiarlo, l’occhio; giocavo a calcio e quando facevo la doccia con i miei compagni dovevo sempre coprirlo.
   “Cos’hai, perché porti un cerotto lì?” chiedevano.
   “Ho una cicatrice” rispondevo. “Mi hanno operato e devo proteggerla se no fa infezione.”
   Per anni ho raccontato quella balla, ma chissà cosa pensavano gli amici, che da bambini soprattutto, si sa, per quanto amici, possono essere veramente stronzi.
   “C’hai la figa sopra l’uccello, c’hai la figa sopra l’uccello, c’hai la figa sopra l’uccello…” mi canzonavano più tardi, verso i quindici anni.
   Tanto valeva dire la verità, ma non ce la facevo, la vergogna e la paura del giudizio altrui mi bloccavano. Smisi anche di giocare a calcio nonostante mi piacesse tanto.
   Devo precisare che con quell’occhio non vedevo e non vedo tuttora nulla; non ha collegamenti nervosi con il cervello. È lì e basta, aperto, con la palpebra immobile e l’iride dello stesso colore castano chiaro dei miei occhi normali. La pupilla però si allarga o si restringe a seconda della luce che la investe. Non so come spiegarlo: pur non vedendoci, con quell’occhio sento. Percepisco cose del mondo circostante che non sono né visibili, né udibili, né tangibili. Cose, appunto, inspiegabili.
   L’occhio ha condizionato pesantemente tutta la mia infanzia, l’adolescenza e di conseguenza, posso tranquillamente affermarlo, tutta la mia vita adulta. Il mio carattere introverso e spiccatamente asociale deriva in parte dall’occhio. Introversione e asocialità possono non essere grossi difetti (in certi casi possono addirittura essere considerati pregi) ma ero anche fragile e ogni piccolo insuccesso – dal prendere un brutto voto a scuola allo sbagliare un gol facile in partita – mi addolorava profondamente facendomi sentire un incapace. Più o meno inconsciamente incolpavo l’occhio.
   Ebbi la mia prima esperienza sessuale tardi, a ventun’anni, con una ragazza che frequentava il mio gruppo di amici (benché fondamentalmente asociale, ho avuto una vita sociale abbastanza normale), si chiamava Mirka ed era molo bella anche se un po’ scialba di carattere. Fu una prima volta traumatica: avevo fasciato l’occhio dicendole che mi avevano tolto una cisti, ma avevo comunque un’ansia esagerata e l’impaccio era totale. Riuscii ad avere un’erezione dopo molti minuti, minuti che mi parvero secoli, ma una volta entratole dentro fu veramente breve. Per un po’ mi sentii depresso dopo quel giorno.
   Per il resto non ho avuto una vita sessuale particolarmente brillante, ma nemmeno così triste. L’occhio condizionava pesantemente anche quella sfera dell’esistenza. Occasioni per mettermi insieme a delle ragazze ne ho avute molte, solo che non me la sentivo di rivelare il mio “segreto” e naturalmente troncavo la relazione dopo aver scopato qualche volta con grande appagamento (questo lo devo immodestamente ammettere!) di entrambi.
   Una volta mi sono anche innamorato, anzi, ci siamo innamorati; si chiamava Yara, mora, piccola ma perfetta nelle forme, e soprattutto acuta e simpatica. La lasciai in lacrime con una scusa che nemmeno ricordo dopo qualche settimana.
   Odiavo l’occhio. L’occhio mi teneva in catene. O ero io a voler stare in catene? A volte osservandolo me lo chiedevo.
   Verso i venticinque anni cominciai a bere pesantemente e a drogarmi con tutto quello che mi capitava sotto mano, dagli spinelli alla cocaina, dall’ecstasy alle amfetamine. A volte mi sembrava, quando ero in fattanza, che l’occhio si “spegnesse”. Altre volte invece mi sembrava “captasse” molto più intensamente.
   Una sera che ero fatto marcio decisi che mi sarei cavato quell’occhio maledetto. Da quando ero nato i dottori dicevano che era meglio non asportarlo perché non potevano prevedere le conseguenze. Io delle conseguenze me ne sbattevo. Presi un cacciavite e iniziai a tormentarlo deciso a sbarazzarmene una volta per tutte, ma appena spinsi la punta al centro della pupilla vidi come un potentissimo bagliore bianco e svenni.
   Quando rinvenni l’occhio era chiuso. La palpebra che era sempre stata aperta, immobile, ora copriva il bulbo oculare e una lacrima di sangue scendeva verso i peli del pube. Provavo un dolore inenarrabile. Sdraiato per terra in quel momento pensai al suicidio, l’unica via per smettere di soffrire fisicamente e non solo. Presi un mix di Valium, Aulin e Tachipirina e fregandomene delle possibili conseguenze mi addormentai. Partii per un viaggio onirico infernale. Feci sogni allucinanti, incubi dai quali mi svegliai – non so dire quanto tempo dopo – sudato e ansimante.
   Guardai l’occhio. Era aperto e non sanguinava più. Non sapevo se avevo sognato di aver cercato di cavarlo oppure ci avevo provato davvero. Non riconoscevo più la realtà dalla fantasia.
   Poco tempo dopo quel fatto mi licenziarono dalla ditta di giardinaggio per la quale lavoravo. Anche se il capo era mio zio, non poteva più tollerare le assenze che facevo per lo sballo della notte precedente o il presentarmi al lavoro ubriaco. Almeno così, a casa, che condividevo con mamma e papà, senza entrate economiche smisi di drogarmi e di bere; o meglio, smisi di drogarmi e limitai il bere. Ma soprattutto, con il tempo a mia disposizione mi misi a scrivere… Quando scrivevo l’occhio pulsava, non era mai successo. Cosa davvero strana: andava al ritmo dei battiti del cuore. La cosa più “strana” però era che quando scrivevo stavo bene, ero quasi felice.
   Con il passare degli anni capii che l’occhio era una parte essenziale (vitale!) di me. Era la porta che si apriva tra il sogno e la realtà, l’anima e il corpo, l’aldiqua e l’aldilà, la vita e la morte, il paradiso e l’inferno…
   Ho continuato a scrivere, cercando di tradurre sulla carta tutto ciò che l’occhio mi faceva sentire, che mi suggeriva, che mi ispirava. Ogni tanto trovavo qualche lavoretto a tempo determinato per rimpinguare un po’ le finanze (ho fatto il lavapiatti, il cameriere, il benzinaio, lo spazzino, il postino, il babbo natale fuori dai supermercati…) ma doveva essere un tempo determinato davvero beve perché poi l’occhio protestava che stavo perdendo tempo… Dovevo scrivere!
   Agli occhi della gente che mi conosce sono sempre sembrato una persona strana – figuriamoci a quelli di chi non mi conosce! – ma costoro non hanno il terzo occhio. Non sanno cosa voglia dire portarselo attaccato al fisico e all’anima dalla nascita.
   Poco tempo fa (ah quante volte cito questo fantasma beffardo di nome Tempo!) ho conosciuto una ragazza. Stavo attraversando uno di quei periodi di down necessari all’occhio per ricaricarsi, ché l’occhio è anche una specie batteria, di presa di corrente. Ero al Sirius e Laura si è seduta al bancone di fianco a me.
   “Posso offrirti da bere?” ha detto.
   “Certamente” ho risposto interrompendo le mie elucubrazioni pessimistiche. “Ho appena finito la terza birra e stavo giusto pensando di passare al rum.”
   “Due rum!” ha ordinato senza esitare Laura al barista.
   Abbiamo così iniziato a conoscerci. L’occhio mi “diceva” che quella ragazza era diversa e potevo fidarmi.
   Laura non era una gran bellezza, rientrava in un’ipotetica media: capelli castani ricci non troppo lunghi, occhi verdognoli, 1 e 60 circa di altezza, magra, pallida. Nei giorni seguenti a quel primo incontro ci siamo rivisti. Dopo un paio di settimane abbiamo fatto l’amore e ho scoperto di essere innamorato.
  La prima volta, per giustificare il cerotto sull’occhio, avevo inventato la solita scusa dell’operazione, ma sapevo che non potevo continuare con quelle balle. Ogni volta che provavo un orgasmo insieme a Laura, l’occhio vibrava.
   Lei era molto coinvolta e la nostra frequentazione è diventata assidua. Una sera, inevitabilmente, è successo.
   “Dimmi la verità, cosa nascondi sotto quel cerotto?”
   A quella domanda ho cominciato a tremare. Dovevo dirglielo? Ero a un bivio: se avessi continuato a mentire l’avrei persa presto e sarei rimasto un uomo misero e solo per il resto della mia vita. Sì, dovevo dirglielo. E così per la prima volta in vita mia ho mostrato l’occhio a una persona che non fosse mio padre o mia madre.
   Mentre lo facevo pensavo che non mi importava nulla della reazione che avrebbe avuto. Lei non si spaventò, parve anzi molto curiosa.
   “Raccontami” mi esortò.
   Così le ho raccontato la mia storia e più la raccontavo più mi sembrava di esistere, di essere unico, di essere importante almeno per qualcuno. Un po’ come quando scrivevo. Lei intanto mi osservava con una luce nuova negli occhi, che non riuscivo a interpretare. Finita la storia ho iniziato a piangere come se si fosse rotto qualcosa in me, come se una diga che arginava un mare di sentimenti si fosse sgretolata.
   “Fossi stato meno sfigato alla nascita, forse me la sarei giocata alla pari con tutti, che era quello che volevo già da bambino, volevo solo essere normale, invece no, il destino – così lo chiamano – mi ha fatto partire con l’handicap” ho sussurrato una volta ripresomi.
   “Tu non puoi essere normale, perché sei speciale” è intervenuta Laura. “È l’occhio a renderti tale, non l’hai ancora capito?”
   Mi carezzava con dolcezza i capelli arruffati.
   “Pensi esistano altre persone che hanno il terzo occhio?” ho chiesto.
   “Ma certo, cosa credi, di essere unico?”
   “No, no certo che no…”
   “Molti lo hanno all’interno, sul cuore per esempio. Non si vede ma c’è. Fortunatamente ne esistono altre di persone così.”
   “Magari lo avessi avuto io sul cuore! Non mi sarei sentito un mostro per tutta la vita.”
   “Credi sarebbe cambiato molto?”
   “Mah, chissà, sicuramente non sarei stato IO…”
   “Appunto. Discorso inutile. Visto che sei TU, segui la strada che solo il TUO occhio vede… Comunque, nascosto o no, tutti quelli che lo posseggono sono passati prima per l’inferno. Qualcuno per sua fortuna ha reso la sofferenza una grande opportunità, e forse è anche riuscito a vedere la Verità Suprema. Mi segui?”
   “Sì, credo di sì. Converrai però che avere l’occhio sotto l’ombelico è più limitante…”
   “Mah. Immagino che se un alieno con sei gambe e cinque teste camminasse per le nostre piazze si sentirebbe molto osservato, ma se fosse consapevole di chi è, se ne fregherebbe, anzi, consapevole del suo essere superiore – e ci vuole poco ad essere superiori al genere umano – andrebbe orgoglioso della sua diversità. Sii orgoglioso di chi sei.”
   “Non è facile.”
   “Nessuno dice che è facile. Per qualcuno è molto più difficile. Pensa per esempio a chi ha l’occhio in fronte, o su una guancia, o sul mento…”
   “Esiste qualcuno che ha l’occhio in fronte, o su una guancia, o sul mento?”
   “Non lo so, ma uso l’occhio come metafora per dire che c’è gente mooolto più “sfortunata” di te, gente senza gambe o braccia, gente paralizzata, gente senza naso, ustionata, deturpata… Ognuno ha il suo occhio e solo chi sfrutta le sue potenzialità può vivere una vita illuminata. Si chiama resilienza. Pensa a chi pagherebbe milioni per averlo dove lo hai tu…”
   “Non credo esistano dei pazzi simili.”
   “Pensa per esempio a chi ha perso un figlio. Pensa a un povero padre che riceve una telefonata in cui lo informano che la moglie e i due figli piccoli sono morti in un incidente.”
   “Fatico a seguirti.”
   “Eppure è così semplice. Per te è stata una tragedia avere un occhio nella pancia dalla nascita; ci sono persone che se lo trovano di punto in bianco nel cervello e devono affrontare tragedie immani. L’occhio diventa un tumore a quel punto, può uccidere. Oppure dare la forza. È impensabile superare certi dolori senza l’occhio. E tu ti lamenti!  Se un uomo senza le gambe può volare o se un uomo che perde un figlio può tornare a vivere, puoi farcela anche tu.”
   Abbiamo rifatto l’amore. Dopo, completamente nudo accanto a Laura, ho provato la sensazione di rinascere.
   “Sorridi alla vita e spargi la luce che proviene da qui” ha detto Laura carezzandomi il ventre intorno all’occhio. “Tu che hai questo raro dono, guarda oltre. Vai oltre.”
   
  
   


Racconti della raccolta VOLEVO SOLO ESSERE NORMALE (parte 3)


SERATE ESTIVE AL VECCHIO BAR 88


Avevo una donna che mi rinfacciava sempre il fatto che passassi troppo tempo al bar a bere e a cazzeggiare. Aveva ragione, ma adesso la donna l’ho lasciata e il bar lo frequento ancora.
   Di una donna posso fare tranquillamente a meno, mentre non posso fare a meno del bar, che considero come una seconda casa. Nei paesi piccoli come il mio è il più importante centro di aggregazione della popolazione, ritrovo di giovani compagnie, punto d’incontro di pensionati e dopolavoristi. È un universo variegato quello del bar, composto da un’incredibile fauna umana. Se uno scrittore, un autore, un comico o chiunque voglia trovare ispirazione entra in un bar come quello che frequento io, gli si aprirà davanti un mondo di idee, spunti, folgorazioni.
   Il mio bar si chiama Vecchio Bar 88. Prima si chiamava solo Bar 88, poi il gestore dell’epoca volle aggiungere “Vecchio” per replicare al Nuovo Bar Toni che stava sottraendo clientela all’88 e da quando aveva aggiunto “Nuovo” vinceva tutte le edizioni del torneo dei bar di calcio.
   Adesso il Vecchio Bar 88 lo hanno preso i cinesi; anche il Nuovo Bar Toni è di proprietà cinese. In effetti al mio paese, dei setto o otto bar che ci sono, è rimasto solo il bar della Chiesa a non essere cinese.
   Il bar lo frequento tutto l’anno ma d’estate quasi quotidianamente. D’estate infatti si trasforma in quel crogiolo di razze e personalità di cui davo cenno poc’anzi. In una tipica serata estiva vi si trova di tutto

   Venerdì di inizio agosto. È una tipica serata estiva, dove gente non ancora via per le ferie incrementa il normale numero di aficionados del Vecchio Bar 88.
   Sono le 18, orario da aperitivo, e non si potrebbe scattare una foto migliore che in questo momento per descrivere il bar ai posteri e agli storici.
   Io sono lì dalle 17, che tanto non avevo nulla da fare: poca ispirazione per scrivere, giornata torrida, condizionatore rotto e cervello in stand-by.
   Avevo già bevuto due spritz e fumato varie sigarette quando è arrivato Albert seguito da Simo, i miei “compagni di sbronze”. Oltre a essere colleghi di bevute sono anche i miei compagni di sbarazzino, il gioco di carte che impegna buona parte del nostro tempo al bar. Spesso ho dovuto ascoltare accuse del tipo che giocare a carte è roba da vecchi o una perdita di tempo, ma chi dice questo non può capire tutta la filosofia che si nasconde dietro al gioco delle carte. A costoro non rispondo mai se non con uno sguardo compassionevole.
   Ci giochiamo sempre da bere io e i miei compari. Quando c’è Zizza giochiamo a coppie, ma oggi che siamo in tre giochiamo in tre, ché si gioca lo stesso. Vince chi arriva prima al punteggio di 41 e questo venerdì agostano non ce n’è per nessuno: spazzo via con facilità i due biscazzieri a cui concedo la rivincita, ma anche quella è una formalità, così la Ceres che mi sono bevuto durante la partita è pagata.
   Vorrebbero giocare ancora ma non ne ho più voglia. Li lascio proseguire il match al tavolino sotto la veranda che normalmente occupiamo per le nostre sfide e mi siedo con un’altra Ceres appartandomi accanto alla siepe a osservare la gente del bar.
   Al bancone – lo vedo attraverso la vetrata – c’è Tony che parla con Susy e Sara, le due bariste cinesi. È visibilmente ubriaco; fortunatamente non è uno di quei coglioni che appena vanno oltre la soglia dell’ebbrezza diventano molesti. Lui rimane sempre tranquillo anche se leggermente fastidioso. Gli si legge in faccia che vorrebbe scopare le ragazze, ma la vedo dura: Susy è sposata con il proprietario del bar, mentre Sara che ha appena vent’anni non ne vuole sapere di cazzi italiani.
   A due metri da me c’è un tavolo occupato da cinque vecchietti che passano al bar tre quarti delle loro giornate. Li vedo che osservano due ragazzine nemmeno diciottenni che erano state probabilmente in piscina a giudicare dai costumi e dal pareo che indossano. Commentano in dialetto bolognese tra di loro, rimpiangendo i tempi andati. Certo è che se avessero l’occasione, una botta alle due bambine la darebbero anche adesso senza pensarci un secondo.
   Ho sempre pensato che diventare un vecchio bavoso da bar fosse una delle cose più tristi che potessero capitare a un uomo. Spero di morire prima nel caso.
   Arriva Elena che mi saluta prima di entrare al bar. È in compagnia di Samir, un tunisino che ammiro come pochi: beve birra, mangia maiale e ritiene tutte le religioni delle cagate utili solo per soggiogare le masse ignoranti. Elena è mia amica. Ci dà di cocarum già all’aperitivo e in un’ora è capace di farne fuori tre o quattro. Una volta l’hanno vista bere acqua e stare male subito dopo. Ogni fisico ha le sue intolleranze!
   Non mi ero accorto che dietro al tavolo di pensionati assatanati giocano a carte anche Lia e Enzo, una coppia di quelle ignoranti forti, che appena vedono uscire dalla porta del bar due migranti ospiti del paese che avevano fatto una ricarica telefonica commentano a voce alta: “Tornate a casa vostra zulù”. Ricordo che quando ero bambino dicevano la stessa cosa ai loro genitori siciliani.
   Al tavolo dei vecchi si aggrega il Bitter, un ultras del Bologna, e l’argomento si sposta momentaneamente dalla figa al calcio.
   All’interno del bar noto trambusto. Dopo un po’ esce Giulio che riferisce ai presenti nella veranda che Tullio, Rino e Fiorenzo si erano infervorati a parlare di politica. Tullio è leghista, Rino renziano e Fiorenzo comunista vecchio stampo. Un mix esplosivo!
   “Ho offerto un prosecco a tutti e tre e si sono calmati all’istante” dice Giulio visibilmente soddisfatto per il suo ruolo di paciere.
   Il potere terapeutico dell’alcol si intuisce anche osservando Luigino, un giovane operaio appena tornato dal lavoro, che grazie a due Campari con vino ha trovato il coraggio di attaccare bottone con Jessica, una bella ragazza che passa spesso per il bar in orario pre cena.
   “Ma vieniiiiiii!” sbotta all’improvviso Albert facendo prendere un colpo a Scroccapaglie che sonnecchiava lì a fianco. Ha battuto Simo e vinto uno spritz. Simo si alza per andarlo a pagare dicendo all’amico che è un gran busone!
   Scroccapaglie si congratula con Albert prima di chiedergli una sigaretta.
   “Du’ maròn!” esclama Albert offrendogli l’ennesima.
   Mentre sono lì che osservo le tette di Olga la Cagnara passata col cagnolino a salutare due amici, pensando che forse sì, sto proprio diventando come i vecchi bavosi lì a fianco, sbuca Jack che con una pacca sulla spalla allontana i miei pensieri impudichi.
   “Ave Manser! Oh ho letto il tuo ultimo libro. Oh, mi ha salvato la vita.”
   “Eeeh esagerato” faccio io.
   “Ti giuro, oh, stavo pensando di suicidarmi facendomi esplodere imbottito di tritolo durante la messa delle 10 quando il tuo libro mi ha illuminato… Oh ho deciso di resistere…”
   Jack è forse il personaggio più balzano che frequenta il bar; è anche una delle persone più pensanti e sensibili che conosco. Beve forte e sicuramente usa sostanze stupefacenti delle più svariate nature e provenienze, ma più è alterato più il suo “occhio interiore” si acuisce, ampliandone la visione introspettiva e filosofica della vita. Quando Jack è sballato le sue porte della percezione sono spalancate, permettendogli così di vedere oltre, lontanissimo, dove i comuni mortali non possono.
   Mi vuole offrire a tutti i costi una birra e nonostante sia già saturo di alcol accetto un’altra Ceres. Ne prende una anche lui e brindiamo alla faccia di chi non capisce un cazzo. Dopodiché comincia una tirata psichedelica che dopo un po’ mi sento allucinato. Le riflessioni dell’amico si incanalano per sentieri tortuosissimi tanto che ad un certo punto, per quanto interessato, non riesco più a seguirlo.
   Sono ormai passate le 20. Albert e Simo mi salutano. Vanno a mangiare una pizza con Elena. I vecchietti se ne sono andati da un po’ senza che me ne accorgessi, intento ad ascoltare e interpretare la filosofia jackiana. Pian piano il bar si svuota.
   Jack mi offre un’altra Ceres e continuiamo a parlare – quasi sempre lui – per un’altra oretta.
   Verso le 21, con il bar che torna a riempirsi di gente che prende il caffè e l’ammazzacaffè e di giovani che si ritrovano per iniziare il venerdì sera, Jack mi saluta scusandosi del disturbo.
   “Macché disturbo! È sempre un vero piacere parlare con te e ascoltarti.”
   “Figurati a me Manser, oh, sei il mio salvatore. Continua a scrivere e non arrenderti mai!”
   Mi alzo dalla sedia e barcollando leggermente mi avvio verso casa. Penso proprio che andrò a scrivere un bel racconto.


STUPIDO CANE


Quando vivevo a sbafo a casa di Giusy quello sì che è stato uno dei periodi migliori della mia vita! Giusy abitava in una vecchia casa colonica nel bel mezzo della campagna di Pieve di Cento. Era una casa divisa in due: da una parte abitava lei da sola, dall’altra una coppia anziana di contadini che avevano un cane, uno di quei cagnetti piccoli e rompicazzo che più sono piccoli più sono rompicazzo. Non so dire che razza fosse, forse un Rompicazzo appunto.
   Nel raggio di un chilometro c’eravamo solo noi e il centro del paese distava almeno tre chilometri in linea d’aria. Adoravo vivere lì; Giusy mi aveva ospitato in cambio di alcuni favori: essendo una donna in carriera e single, aveva bisogno che qualcuno le facesse i lavori di casa e che ogni tanto la scopasse. Per me che in quel periodo stavo scrivendo il libro della vita un lavoro tranquillo, chiamiamolo così, in un posto ancor più tranquillo era l’ideale. Peccato che quello stupido cane dei vicini abbaiasse di continuo. Latrava dall’alba al tramonto e spesso anche la notte. La mattina anticipava il canto del gallo del pollaio dei vecchi. Eppure non c’era nessuno contro cui abbaiare, non so che cazzo avesse, forse abbaiava a fantasmi che solo la sua anima animale percepiva. Era veramente un cane stupido, il cane più stupido che avessi mai visto.
   Stavo da Giusy da una settimana e non avevo ancora scritto una riga per colpa del cane. Una notte, dopo averla scopata con il bau bau incessante del cane come sottofondo, le chiesi se a lei non dava fastidio.
   “Non più di tanto, ci sono abituata” rispose.
   “A me manda fuori di testa. Ieri quando sono tornato dal fare la spesa mi ha accolto con il solito abbaiare fastidioso e non ho resistito: gli ho dato un calcio ma dopo un breve cai cai ha ripreso più incazzato di prima. I due vecchi mi hanno visto e hanno iniziato ad abbaiarmi contro pure loro.”
   “Mi spiace che ti dia così noia. Purtroppo lo hanno abituato così, inoltre a loro non deve dare molto fastidio visto che sono uno più sordo dell’altra.”
   “Beh, qualcosa devo fare. Proverò con la meditazione. Se non dà fastidio a te, posso riuscire a sopportarlo anch’io.”
   Ma un mese dopo, io e lo stupido cane eravamo ai ferri corti. Lui sicuramente percepiva l’odio che provavo nei suoi confronti e io sentivo il suo nell’abbaiarmi sempre più ringhioso.
   Un pomeriggio, mentre imbiancavo la camera da letto di Giusy, si piazzò fuori dalla finestra e iniziò il suo concerto, dedicatomi col cuore, che proseguì ininterrotto finché non finii. Sfortunatamente avevo la radio che non funzionava e la tv era in soggiorno, troppo lontana per venirmi in soccorso anche con il volume al massimo. Se non ci fosse stata la vecchia seduta in cortile a controllare la situazione, come minimo gli avrei tirato un secchio di vernice sperando di centrarlo sul muso. Quella sera andai su Google e digitai:

METODI MIGLIORI PER UCCIDERE UN CANE

   Mi uscirono decine di proposte di squilibrati su come preparare polpette micidiali, ma dopo un po’ mi sentii anch’io uno squilibrato e provai vergogna.
   “Che cazzo sto facendo?!” mi dissi spegnendo il pc.
   Lasciai perdere ma il giorno dopo, mentre il cane abbaiava in cortile, sembravo Jack Torrance impazzito in Shining davanti al mio quaderno le cui pagine rimanevano immacolate da giorni. Presi la penna e al centro di una pagina scrissi:

Il cagnino ha l’amo in bocca!!!

   La mattina seguente andai in centro. Dopo aver fatto alcune commissioni per Giusy, mi fermai al bar della piazza dove trovai Geppo. Geppo Tugnoli era considerato il matto del paese, ma a me piaceva, c’era qualcosa in lui che mi affascinava, un barlume di follia gli illuminava lo sguardo di luce luciferina. Per me Geppo era più sano di mente della maggior parte degli abitanti di Pieve, anche se era indubbio che avesse qualche rotella fuori posto.
   “Mi dai due spicci per una birra?” mi chiese appena entrato nel bar. A quel punto ebbi un’illuminazione.
   “Vuoi che ti paghi due birre al giorno per un mese?” dissi.
   Annuì con espressione sorpresa, come se si chiedesse se lo stavo prendendo per il culo.
   “Non sto scherzando” mi affrettai a spiegare. “Vieni qui, appartiamoci a questo tavolo…”
   Al riparo da orecchie indiscrete gli dissi che se fosse venuto quella sera a portare via il cane dei vecchi la mia promessa si sarebbe subito concretizzata al bancone del bar. Geppo sorrise malignamente mentre mi dava la mano.
   “Che ne faccio dopo del cane?” domandò.
   “Quello che vuoi, basta che non lo ammazzi. Poveraccio. Anch’io dopo tutto ho un cuore. Ah, mi raccomando: acqua in bocca, anzi, birra in bocca! Io non ti ho mai chiesto niente e tu non hai mai fatto niente.”
   Gli pagai anticipatamente una birra, gli diedi alcune dritte su come agire e lo salutai dandogli appuntamento per il giorno dopo sempre al bar.
   La sera, a casa, dopo cena mi intrufolai tra le lenzuola del letto di Giusy e ci demmo dentro come non mai. Erano le dieci passate e dello stupido cane non c’era traccia.
   “Che strano, Pulce non abbaia, starà poco bene!” esclamò Giusy ansimante al mio fianco.
   “È vero, quasi quasi mi manca quello stupido cane” dissi accendendo la classica sigaretta post coito.
   Il giorno dopo, come d’accordo, mi trovai al bar con Geppo. Davanti a una birra gli chiesi com’era andata, cosa ne aveva fatto del cane.
   “Tutto liscio, come bere whiskey” rispose. “Il cane l’ho tenuto in garage da me tutta notte. Gli ho messo una museruola perché abbaiava di continuo. Stamattina l’ho regalato al padrone dello “Shangai”, il ristorante cinese di Castello d’Argile.”
   “Ma ti avevo detto di non ucciderlo!”
   “E chi l’ha ucciso? Il padrone del cinese era felicissimo del regalo… Quel bastardino non poteva trovare un padrone migliore.”
   Brindammo.
   Da quel giorno cominciai a scrivere. E per tutti i restanti nove mesi in cui vissi da Giusy scrissi. Scrivevo, mangiavo, bevevo e scopavo, il tutto in cambio di qualche lavoretto. Il paradiso.
   I vecchi non sembrarono troppo addolorati per la scomparsa di Pulce, e dopo qualche tempo adottarono un altro cagnetto simile al precedente, che io ribattezzai Pidocchio. Per fortuna abbaiava poco, forse anche perché appena arrivato, dopo avermi ringhiato un po’ contro, gli tirai una bottiglia di birra in testa facendogli non poco male: smise subito e non lo rifece mai più. Educato in cinque secondi! Magari si potesse fare così anche con gli esseri umani…
   Poi un giorno anche la parentesi a casa di Giusy si chiuse. Tornai sulla mia strada come un vecchio cane randagio, uno stupido cane che abbaia senza sosta ai propri fantasmi.



CONSIGLI PER CHI VUOLE PUBBLICARE UN LIBRO
(OCCHIO ALL’EDITORE)


Ho pubblicato il mio primo libro nel 1997. All’epoca, come autore, ero come una verginella confusa che non ha idea di quanti e quali squali è popolata l’acqua in cui sguazza ingenuamente. Avevo scritto una storiella banale sui miei travagli amorosi e spirituali di post adolescente e mi feci “abbagliare” dal primo specchietto per le allodole che trovai su un giornale. “L’Editrice Nuovi Autori cerca nuovi talenti” c’era scritto sulla prima pagina del quotidiano. “Sticazzi, vuoi vedere che ho del talento?!” mi dissi. Spedii il manoscritto a questo editore di Milano (già Milano mi ispirava grandeur, poi il nome: Editrice Nuovi Autori! Prima viene solo la Mondadori!!!) e dopo un paio di settimane mi arrivò una lettera: storia interessante e profonda bla bla bla scritta molto bene bla bla bla scorrevole e piacevole bla bla bla ottime possibilità di vendita bla bla bla diffusione capillare su tutto il territorio nazionale bla bla bla pubblicità su varie testate bla bla bla. Costo… 9.000.000 (no-ve-mi-lio-ni) di lire. Da pagare in tre rate (ah beh, allora!).
   Mizzega, penso, forse nove milioni sono un prezzo equo per un talento che pubblica il suo primo libro con la grande Editrice Nuovi Autori. Telefono e parlo con il boss della casa editrice che mi ripete i punti che avevano fatto in modo che la redazione approvasse la pubblicazione di Come un fiore nel deserto. Sicuramente ripeteva a memoria le stesse parole ogni giorno a decine di poveracci come me.
   Per rendermi meglio conto di con chi avevo a che fare, andai a fare un sopralluogo a Milano nella sede dell’Editrice Nuovi Autori, un ufficio la cui vetrina che dava sulla strada era stata sfondata con una pietra. “Non è la prima volta che succede” mi disse la segretaria, la qual cosa poteva e doveva accendermi una lampadina. Ma ormai ero stato plagiato; firmai il contratto e una volta pubblicato  il libro mi mandarono le mie copie, mi pare 250 - 270 circa (alcune le ho ancora…). Quello che speravo sarebbe diventato un bestseller scritto dal nuovo talento della Nuovi Autori Manservisi, si è subito rivelato ciò che effettivamente era: una cagata di libro stampato da una banda legalizzata di truffatori come ce ne sono a centinaia tra gli editori, troppo spesso meschini approfittatori dei sogni di veri o presunti artisti.
   E così quella fu la mia prima “inculata”. Ma non avevo ancora ben compreso i meccanismi del sottobosco editoriale italiano e ne presi una seconda con la pubblicazione de La Grande Inculata, libro che però non parlava di editori…
   Prima avevo pubblicato Destinazione Moe con la casa editrice Oppure di Roma. Anche in questo caso mi recai in redazione. Dopo un lungo viaggio in treno e un passaggio in taxi con un abusivo napoletano che mi spillò un patrimonio, arrivai davanti alla sede della Oppure, un appartamento fuori città. Anche a loro pagai qualche milioncino, ma molti meno dei nove dati alla Nuovi Autori, e per molte più copie. Anche di questo me ne sono rimaste diverse copie…
   Dicevo de La Grande Inculata. Cicorivolta Edizioni. Il nome mi ispirava così mandai il manoscritto. Dopo pochi giorni mi telefonò il boss, dicendomi che aveva trovato in me un genio letterario (anni dopo ho scoperto, grazie ad altri scrittori che avevano inviato manoscritti a Cicorivolta, che l’Italia pullulava di geni letterari) e dopo mille lusinghe mi convinse a firmare il contratto che prevedeva il pagamento di una quota per un tot di copie. Oltre a pagare le mie copie ci rimettevo anche qualcosina. La qualità di stampa (intendo qualità cartacea, impaginazione, rilegatura, copertina) era appena sufficiente, con il nero della copertina che si squagliava al sole, almeno così mi dissero amici che si erano portati il libro in spiaggia.
   Ma il peggio a livello di qualità di stampa lo toccai con due seguenti pubblicazioni: Il quaderno rosso (La Riflessione) e L’isola delle farfalle d’oro (Evoè).
   Prima ancora era però uscito nelle peggiori librerie di Caracas Lo strano caso di gastrite del Sig. Bartezzaghi edito da Edizioni Progetto Cultura (bel nome!). A loro pagai a prezzo intero un numero prestabilito di copie e dopo un anno mi arrivò il resoconto dei libri venduti da loro: una copia! Ziocane, ma sbattersi appena appena per vendere i libri delle proprie collane, no eh?!
   Dicevo di qualità di stampa: con La Riflessione di Cagliari pubblicai Il quaderno rosso. A questi ciarlatani pagai per un numero obbligatorio di copie e ricevetti a casa dei simil-libri composti da pagine fotocopiate di carta velina, con la copertina in cartoncino sottile che dopo averla maneggiata un paio di volte era più rovinata della faccia di Mickey Rourke dopo una sbronza con rissa. Dopo dodici mesi La Riflessione mi mandò una mail in cui mi chiedeva i dati bancari per farmi un bonifico. Siccome a me spettava lo 0,000euncazzo su ogni copia venduta da loro, mi scrissero che mi avrebbero inviato ben 2,50 euro. Glieli lasciai in beneficenza!
   Con la Evoè di Teramo invece, con cui pubblicai L’isola delle farfalle d’oro (pagai con un po’ di sconto le mie copie precedentemente accordate), mi arrivarono praticamente dei quaderni con le pagine che si staccavano. Mi ero fatto “abbindolare” da un gruppo di studentelli universitari che aveva aperto una casa editrice (!) per spennare qualche pollo e pagarsi gli studi.
   Infine ho trovato l’editore giusto per me: Edizioni Il Foglio di Piombino. Mi piacque da subito perché la prima volta che gli mandai un manoscritto lo rifiutò perché non era di suo gradimento. Sarei potuto rimanerci male e cancellarlo dalla lista dei “papabili”, invece mi impressionò positivamente perché significava che era un onesto e non pubblicava cani e porci solo per guadagnarci come fanno tanti. Con Il Foglio ho poi pubblicato sei libri. Il Foglio non è un editore a pagamento, conta soprattutto sulla qualità dell’opera oltre che sull’entusiasmo e la spinta ad autopromuoversi dell’autore che pubblica. Rappresenta lo spirito più profondo dell’underground. La qualità di stampa dei libri è eccelsa e non pretende che tu compri obbligatoriamente un certo numero di copie, inoltre ti fa acquistare le copie che desideri a metà prezzo di copertina. Se devo fargli una critica, che probabilmente riguarda tutti gli editori medio-piccoli, non promuove molto i suoi autori se non pubblicizzandoli su internet e vendendo i libri nelle fiere e agli eventi letterari e non a cui partecipa (che è già tanto), ma li capisco, e pretendere che investano tempo e denaro su di te singolo autore – con tutti quelli che dovrebbero seguire – è da presuntuosi anche per me che adoro la presunzione. Sarebbe bello sentirsi importanti e coccolati dall’editore-manager ma è chiedere troppo, soprattutto per chi non ha un nome. Per essere trattati da bookstar bisogna diventare una bookstar!
   Fatto questo preambolo riassuntivo delle mie esperienze con editori, è giunto il momento di darvi alcuni consigli nel caso in cui il sacro fuoco della scrittura vi scorra nelle vene bruciandovi l’anima. Se non volete cadere nella trappola dell’editoria italiana, leggetemi bene.
   Punto di partenza: non vorrei disilludervi ma che voi siate scrittori di talento, creatori di storie intereressantissime e originali (cos’è poi l’originalità se non la capacità di rielaborare rendendole più gustose le “solite minestre”?!) nonché divulgatori di verità ultraterrene e quindi più che degni di una qualche forma di successo, o che siate invece semianalfabeti buoni a scrivere solo cagate soporifere trite e ritrite, il discorso non cambia. NON DIVENTERETE FAMOSI E NON CAMPERETE DI LIBRI, a meno che qualche stranissima e imponderabile combinazione di eventi e fattori non vi renda dei miracolati. Ovviamente ve lo auguro.
   Detto ciò, ora che siete tutti più rilassati, veniamo ai consigli veri e propri. Intanto fossi in voi lascerei perdere i grandi editori. Può darsi che abbiate anche scritto un capolavoro, ma chi vi cagherà? Se non avete già un nome, quante reali possibilità credete d’avere di farvi pubblicare da Mondadori, Feltrinelli, Adelphi, Rizzoli, Garzanti, Einaudi, ecc.? Una su un milione forse. E quanto tempo dovrete aspettare per avere una risposta, sempre che arrivi? Con i sopracitati, sempre che vi rispondano, come minimo un annetto. Però, se avete pazienza e per voi la speranza è l’ultima a morire, provateci pure.
   Ora, se vi interessa ancora il mio parere, prendete un evidenziatore e concentratevi su questo vademecum. Una volta che avete terminato la vostra opera e avete deciso di pubblicarla, fate un’attenta ricerca su internet, puntando su editori medi o piccoli NON A PAGAMENTO, informatevi su di loro, leggete le recensioni. Scrivetegli magari una e-mail chiedendo se sono interessati alla vostra storia (mandate una breve sinossi) e per non far perdere tempo a nessuno siate subito chiari: ditegli che non intendete pagare soldi extra, se non l’acquisto, magari scontato, delle vostre copie. Pensate di prenderne un centinaio? Dichiarate sulla parola che minimo settanta vi serviranno di sicuro (poi sta a voi essere di parola). Così anche l’editore, per un mero calcolo economico che deve “purtroppo” e spesso fare, capirà meglio se può investire a scatola chiusa su di voi.
   Evitate come la peste chi vi chiede soldi. Siete liberi di accordarvi tra le parti per pagare un tot di copie prefissato, ma siamo già in una situazione limite.
   Eliminate senza indugi quegli editori che vi contattano leccandovi vergognosamente il culo (bello essere lusingati, ma se fate attenzione noterete la falsità che trasuda dalle loro blandizie), magari dopo pochi giorni che gli avete mandato il manoscritto. Secondo voi lo leggono?
   Fate attenzione a quelli che compaiono spesso sulle pagine dei quotidiani, spesso in prima pagina. Se lo possono permettere perché hanno già derubato migliaia di autori e con quella pubblicità ne fotteranno altri. Come faccio a dirlo? Perché ne ho contattati diversi anch’io per vedere cosa mi proponevano. Tra questi parassiti posso tranquillamente elencare Il Gruppo Albatros Il Filo e Ibiskos Editrice Risolo.
   Dunque se trovate un editore che vi pubblica gratuitamente, non obbliga all’acquisto di un determinato numero di copie, vi fa acquistare le vostre copie a metà prezzo e dimostra così che crede nel valore del vostro lavoro, fateci un pensierino. Una volta pubblicato il libro, dovrete mettervi di buona lena a promuovervi con entusiasmo e umiltà. Fare pubblicità su facebook, organizzare presentazioni, eventi e bancarelle alle fiere sarà un gran divertimento se la sapete prendere con spirito e non vi aspettate di vendere chissà quale numero di copie.
   Se per voi scrivere è davvero una passione, verrete ripagati. Se per voi scrivere è volare, volerete, a prescindere dal fatto che vendiate 50, 100, 1000 o 10.000 copie. Se per voi scrivere è un sogno, non svegliatevi mai!
   Questo è il mio 13° libro. Se per me scrivere non fosse come respirare, credete che sarei arrivato a pubblicarne così tanti per vendere solo qualche centinaio di copie (tra tutti) ad amici e qualche sporadico fan? No, non l’avrei mai fatto. Se scrivi devi metterti in testa di essere un don Chisciotte che combatte contro i mulini a vento; in un mondo dove pochi leggono e anche quei pochi cominciano ad avere come lettura preferita Facebook, non può essere altrimenti.
   Se pensate che scrivere vi farà diventare ricchi e famosi, lasciate perdere. Se invece scrivete perché ne sentite un disperato bisogno, andate avanti fottendovene del mondo arido in cui vivete, anzi, è proprio perché il mondo è arido che scrivete. Per fertilizzarlo. Un complimento sincero fattovi da una “persona fertile” poi vi ripagherà più di quanto possiate immaginare.
   Le nuove generazioni cominciano a disabituarsi ai libri cartacei e mi dispiace. Sono ancora uno all’antica e subisco il grande fascino del libro di carta; non so che fine faranno questi magici oggetti, certo è che il progresso può essere un vantaggio per la pubblicazione e la divulgazione delle proprie opere. Sono poco ferrato e pure un tantino ignorante in materia ma mi dicono che esistono gli e-book e sono molto facili da pubblicare, vendere, divulgare… Mah, non lo so, io rimango pervicacemente e donchisciottescamente legato al caro vecchio libro di carta, che si tocca, si annusa, si vive! Se anche voi siete così, credo di avervi dato delle dritte. Oggi poi, sempre grazie a internet, potete pubblicarvi un libro seguendo qualche passaggio on line, come se aveste una tipografia in casa. E visto che spesso gli editori sono semplici tipografi, non è una cattiva strada da seguire neanche questa.
   Amici, ora vi saluto. Spero di esservi stato utile. E ricordate: se siete veri scrittori, seguite la vostra natura, e sarete grandi scrittori anche senza pubblicare con Bompiani, Guanda, Piemme e compagnia bella. Lo sarete anche senza chiamarvi Fabio Volo o Paulo Coelho…


IL DIARIO


La chiamano casa di cura ma per me è semplicemente il manicomio. Mi hanno rinchiuso da qualche mese, ho perso il conto dei giorni ormai, potrebbero anche essere passati anni. Qui dentro è come se il tempo si fosse fermato. Come se la vita si fosse fermata.
   Non credo nel concetto di INIZIO-FINE, filosoficamente parlando, ma per semplificare potrei dire che tutto è cominciato nell’adolescenza, quando nonno Lucio mi regalò un diario e una penna per il mio quattordicesimo compleanno.
   “Visto che ti piace scrivere storie, questo mi sembrava il regalo più adatto” disse.
   Lo abbracciai come se mi avesse fatto il dono più prezioso del mondo.
   La sera stessa cominciai la stesura del diario raccontando semplicemente della festa di compleanno che mi avevano organizzato genitori e nonni. Non avrei mai immaginato che sarebbe stato “l’inizio” di qualcosa di talmente grande e misterioso che si fatica persino a raccontare. Quel quaderno rilegato – primo di una lunga serie che avrei riempito negli anni – fu anche il primo passo che mossi verso la luccicanza.

   La mia vita è stata una vita piuttosto normale e abbastanza tranquilla. Avevo genitori che mi hanno educato con sani principi, commettendo i loro errori come chiunque, e col senno di poi credo di avere imparato più da quegli errori che dal resto.
   Alle elementari e alle medio ero uno studente discreto, alle superiori molto più svogliato ma il boom adolescenziale nonché ormonale si era fatto sentire: fuori fino a sera con gli amici, partite di calcio interminabili al campo parrocchiale, primi amori e cotte più o meno importanti. Inoltre con l’inizio del liceo avevo iniziato il diario e preferivo scrivere su quelle pagine piuttosto che studiare.
   Alcune passioni che avevo da ragazzino mi hanno accompagnato per tutta la mia esistenza successiva: tra queste le principali sono state la letteratura e la musica. Ho sempre letto di tutto, di tutti. Devo però ammettere che non ho mai apprezzato la letteratura femminile. Sessismo? Puerile snobismo? Ignoranza? Non so, so che a me le scrittrici non sono mai piaciute e di conseguenza se posso le evito tutt’ora. Suonavo anche la chitarra e fino a venticinque anni ho fatto parte, insieme ad altri tre amici, del gruppo rock Amo Ilaria di Non è la Rai.
   Sciolto il gruppo e chiusa una breve parentesi universitaria sono stato assunto come portalettere nel comune di Granarolo dell’Emilia. Cinque anni dopo ero allo sportello. Altri cinque anni ed ero direttore dell’ufficio postale di Minerbio.
   A trentacinque anni vivevo solo in un appartamento nel centro dell’ameno paese di San Pietro in Casale. Donne fisse ne ho avute tre, storie durate al massimo un paio d’anni ciascuna; da single vivevo molto meglio, anche perché se non mi innamoro oltre la soglia della normalità, dopo tre o quattro scopate una donna comincia a starmi stretta come una scarpa di tre o quattro misure inferiori.
   Negli anni ho continuato a scrivere sul mio diario: pensieri, sogni, visioni, desideri, idee, progetti, eventi epocali, storie paesane, fatti quotidiani rilevanti o irrilevanti.
   A metà della vita media di un uomo mi sentivo abbastanza soddisfatto.

   Ero stato nominato da poco direttore dell’ufficio di Minerbio ed ero in ferie. Ne avevo parecchie da smaltire, così dopo essere stato una settimana in Sardegna con amici e tre giorni a Praga con una scopamica, nei seguenti dieci o undici giorni che mi rimanevano prima di tornare al lavoro avevo deciso di sistemare casa: pulizie, imbiancatura e lavoretti vari.
   Mentre risistemavo i vestiti nell’armadio, in un angolo dello stesso ho notato lo scatolone che conteneva i vecchi diari. Nello scatolone mettevo i diari man mano li finivo; ce n’erano una cinquantina là dentro e non li avevo mai riletti. Non volevo aprirlo ma una specie di forza misteriosa mi spingeva a farlo, così mi sono ritrovato in mano il diario regalatomi da nonno Lucio più di vent’anni prima. L’ho aperto.

   Quando sono rinvenuto ho impiegato diversi minuti per rendermi conto che avevo perso i sensi. A cosa era dovuto quel mancamento? A un calo di zuccheri? A uno sbalzo di pressione? Osservando il diario per terra lì accanto a me ebbi un pensiero che mi illuminò la mente giusto il tempo di un lampo: e se fosse stato Lui a farmi svenire?
   Leggermente stordito raccolsi il quaderno e andai a sedermi in salotto sulla poltrona antistante la finestra che dava sulla piazza principale di San Pietro. Una volta comodo riaprii il diario con cautela, quasi aspettandomi un altro mancamento, ma visto che non accadde nulla cominciai a leggere.

   Ho praticamente letto per tutti i restanti giorni di ferie che rimanevano. Letto e riletto i quaderni che compongono IL DIARIO, la storia della mia vita. Leggere la mia vita su quelle pagine è stato come riviverla, e da spettatore di me stesso ho visto cose che mentre la vivevo in diretta mi erano sfuggite. Ho notato incastri, nessi, apparenti coincidenze, collegamenti diretti con passato, presente e futuro. Giunto al termine della lettura – in pratica arrivato alla pagina del giorno prima, l’ultima che avevo scritto – ho capito che nel diario è celato il segreto della (mia) vita. Non è stato facile fare luce su un mistero tanto grande, ma credo che chiunque possieda un diario da anni possa risolverlo. Rileggendo il mio ho scorto tra milioni di parole IL SEGNO DEL DESTINO. Ho notato come tutto ciò che mi è accaduto era inevitabile e prevedibile
   Dopo aver “letto bene” il mio passato, sono stato in grado di vedere il futuro, mio e di chi mi sta accanto. Se mi sforzo un po’ posso vedere pure il destino dell’umanità.

Ci ho provato spesso a raccontare ad amici e conoscenti cosa accadrà loro un domani dopo aver avuto quella folgorazione. Più conosco a fondo una persona, più ho una visione nitida del suo futuro. Ho flash repentini ma molto chiari. Il problema è che quando voglio avvisare qualcuno, rivelargli cosa gli riserveranno i giorni a venire, comincio a balbettare, a parlare incomprensibilmente, fino a che non svengo.
   Il motivo per cui mi hanno rinchiuso in manicomio è proprio questo: vedo il futuro di parenti, amici e gente comune e vorrei avvisarli dei pericoli e degli ostacoli, ma ogni volta che provo a farlo sembro un pazzoide o un ossesso.
   Ero stato licenziato da poco quando sono venuti a prelevarmi da casa due carabinieri insieme a un medico e un assistente sociale. Io gli ho semplicemente sorriso perché sapevo che sarebbero arrivati. Da una settimana, affacciato al balcone, cercavo di “gridare” al mondo quale futuro terribile lo aspetta se non cambierà strada e puntualmente cominciavo a balbettare, parlare strano, per poi svenire.
   La gente giù in piazza era preoccupata. Il sindaco, mio amico d’infanzia, era venuto a trovarmi. Avevo cercato di dirgli del futuro suo e del mondo ma non avevo fatto altro che impressionalo mostrandomi come un indemoniato.
   Pochi giorni dopo sono finito in manicomio.

   Anche qui dentro continuo a vedere con chiarezza e anticipatamente l’esistenza mia, dei miei conoscenti e di questo pianeta. Quel che sta per capitare sarebbe evitabilissimo se gli uomini fossero più illuminati di mente e di cuore, ma ciò pare impossibile. Riprovo ad avvisarvi amici:
   Presto acca acca accadrà checche la la la mia mi mi la mia minchia al ser sevizio dellUmanità cederà al Corpo e al culo di Zio Cristo fagocitando la gnoccasbrodolosa in un impeto di cuhhv vhurv vjjjjjvijbbbbbbbbbbbbb
  

BREVE BIOGRAFIA DI WALLACE CODROIPO, IL PIU’ GRANDE SCRITTORE DEL NOVECENTO


Dubito lo conosciate in molti. Se lo cercate su Google troverete solo poche righe su un blog in disuso, ma per me Wallace Codroipo è il più grande scrittore del Novecento.
   Il post nel blog sopra citato ci dice che l’italoamericano Codroipo nacque a San Diego in California nel 1933. Rimasto presto orfano venne cresciuto da una zia a New Orleans e dopo una tribolata infanzia si trasferì a New York. Non viene spiegato che studi fece e che adolescenza ebbe, veniamo però a sapere che diventò amico di John Dos Passos il quale lo introdusse nel mondo della letteratura.
   Pubblicò il suo primo libro nel 1959, My name is Gennarino, che non piacque al pubblico yankee e fu un fiasco editoriale. Nel 1963 pubblicò Il postribolo di nonna McEnzie che vendette invece migliaia di copie e divenne un successo nazionale. In seguito uscirono Galline e galletti, La salsa torbida, Succhia bene o mi incazzo ma non furono apprezzati dai lettori e dalla critica americana. Ebbero però successo in Europa, soprattutto in Francia dove Codroipo è considerato il fondatore di quella corrente a metà tra beat generation e lost generation che porta il suo nome: il codroipismo, basato su una scrittura sintetica ma estremamente pregnante.
   Wallace Codroipo morì suicida il giorno di Natale del 1974 nella sua casa del Bronx dopo aver trascorso anni abusando di alcol e droghe. Si narra che prima di spararsi in bocca lasciò un biglietto con scritto:

Non c’è una sola cosa vera a questo mondo.
Tutto è finzione e illusione.
Tranne le storie raccontate da scrittori e poeti.
Addio.

      Ho conosciuto W.C. per caso, su una bancarella di libri usati a una sagra paesana. La salsa torbida era nascosto sotto tre o quattro libri di Jack Kerouac e John Fante. La copertina – un elefante senza una zanna e con una gamba ingessata – unita al titolo attrasse la mia attenzione. Lessi prima la sinossi poi le note biografiche e fu amore a prima vista, un colpo di fulmine confermato dalla lettura del testo.
   Avevo vent’anni e posso affermare che grazie a W.C. ho iniziato ad innamorarmi dei libri e della lettura. È stato difficile reperirle ma ho letto tutte le sue opere, anche quelle postume che a quanto ho scoperto sono state trovate da un nipote dopo la sua morte e pubblicate nel corso degli anni. Tra queste cito capolavori come Banana Airlines, Orazio Eiaculazio (trovato solo in lingua inglese con il titolo originale Eiaculatio Horace), E venne il tempo dei carciofi, Racconti lampo, La malattia dello scrivere. Quest’ultimo è uno dei romanzi più introspettivi che ho mai letto, una confessione commovente sul potere delle parole e sulla fragilità dell’artista.
   Degli scritti postumi ho apprezzato particolarmente Racconti lampo, letto ormai una quindicina di anni fa. Quel libro ha influenzato anche il modo che ho di scrivere – non ho mai fatto mistero della mia appartenenza al sintetismo codroipiano, è sottolineato anche nella home page della mia pagina facebook – e insieme agli altri anche il mio modo di pensare. È una raccolta di un centinaio di racconti brevissimi (lampo!) dove l’autore racconta una storia in pochissime righe. Sono divisi in tre parti: C’era una volta, C’è, Ci sarà un giorno.
   Faccio alcuni esempi di racconto lampo codroipiano:

UNA STORIA TRISTE

C’era una volta una coppia di innamorati.
Lei rimase incinta. Lui era felice. Lei no.
Lei voleva abortire. Lui no.
Lui non poteva scegliere. Lei sì.
Una parte di lui morì insieme al figlio che non avrebbe mai conosciuto.

GUERRA

C’è un uomo sdraiato su una scomoda branda arrugginita.
Cicatrici che pulsano gli tolgono il sonno.
La pioggia che picchietta su quel che rimane del tetto della caserma gli tiene compagnia in questa notte di ansia e paura.
C’è la guerra nel suo cuore.

LA STRADA TRA SOGNO E REALTA’

Ci sarà un giorno un uomo che farà un sogno, un sogno strano.
Da sveglio deciderà di trasformare il sogno in un racconto.
Così altre persone leggeranno il suo racconto nato da un sogno.
Qualcuno, leggendo tra le righe, individuerà la strada.
Perché la strada si trova lì, a valle tra i monti Sogno e Realtà.

   Questi sono alcuni dei miei preferiti. Anch’io mi sono cimentato qualche volta nella stesura di racconti lampo. Tempo fa per esempio, mentre ero in stazione ad aspettare il treno per Nonsodove ho scritto questo:

DERAGLIAMENTO

C’è un ragazzo alla stazione che aspetta il treno per andare in Qualcheposto.
Sta chino sul suo telefono, la realtà rinchiusa dentro a uno schermo.
Lo sento imprecare, la batteria è scarica.
Il panico gli deforma il viso in un quadro grottesco.
Il treno di quel ragazzo non arriverà mai.

   Io a Wallace ci ho dedicato pure un libro. Ci ho dedicato è dedicato a Wallace, che si divertiva spesso a scrivere alla cazzo di cane, senza regole, per prendere per il culo i critici e gli snob della grammatica.
   Mi ha insegnato tanto Codroipo, in particolare a coltivare la mia passione per la scrittura fregandomene di tutto e di tutti. “Credi in quello che fai” scrive in un libro, “e diventerai ciò che sei.”
   In particolare Wallace Codroipo mi ha insegnato che il successo non è lo specchio del valore. Prendi uno scrittore famoso: lo conoscono in tanti a livello nazionale o mondiale per avere scritto opere idolatrate da milioni di persone, ma può anche darsi che le pagine dei suoi libri contengano il Nulla. Al contrario in scrittori sconosciuti (non dico come Codroipo che comunque la sua notorietà soprattutto in Francia l’ha avuta), nelle opere di esimi Mister X, può celarsi la magia. In un libro di Tizio o di Caio può esserci molta più qualità, poesia e verità che nel libro di una Mazzantini o di un Faletti.
   Questo mi ha insegnato Codroipo. E visto che sento che in ciò che scrivo c’è MAGIA, QUALITÀ, POESIA E VERITÀ, continuerò a scrivere, oltre che per me, per quei due o tre illuminati-non-lobotomizzati-avulsi-dalla-massa che sapranno cogliere la LUCE dei miei scritti.
   Grazie Wally.