lunedì 25 dicembre 2017

MITICO


MITICO
CRONACA REAL DEL 19° “CAMP MITICO VILLA”



Al bambino che vive
in ognuno di noi.

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PRIMI CONTATTI CON IL MITICO VILLA


   Un pomeriggio di maggio ricevo una chiamata da Lorenzo Capone, ragazzo che conosco da anni per aver incrociato con lui le nostre carriere sui campi della provincia, prima come calciatori poi come allenatori di ragazzini. Lollo conosce bene Villa per aver allenato vari anni alle sue dipendenze e aver partecipato a molti camp.
   “Ciao Simo, ho una proposta da farti” esordisce. “Siccome io non posso andare perché non mi danno le ferie, ho fatto il tuo nome a Renato Villa per andare a fare l’istruttore al suo camp. Sei libero tra fine giugno e inizio luglio? Se ti interessa, chiamalo al più presto.”
  “Grazie Lollo, sì mi interessa, lo chiamo sicuramente” rispondo senza pensarci più di un secondo.
   La sera stessa mi sento con Villa. Il Mitico, come è soprannominato dai gloriosi tempi del Bologna di Maifredi, mi propone di andare a fare l’istruttore una settimana ad Arcevia nelle Marche, dove si farà per la prima volta il suo camp, e due settimane alla base, nel collaudatissimo camp di Sestola. Mi dice in quanto consiste il rimborso spese e siccome ho voglia di mettermi alla prova con una nuova esperienza accetto soddisfatto. Andrò a fare un “lavoro” che amo e prenderò qualche spicciolo oltre ad avere vitto e alloggio. Immagino sarà una prova impegnativa ma sono altrettanto sicuro che mi darà tanto dal punto di vista professionale e umano.
   Qualche giorno dopo vado al campo di Casalecchio dove per la prima volta faccio la conoscenza vis-à-vis del Renatone Nazionale. Con lui c’è Roberto Russo. Scambio quattro chiacchiere con i due ex campioni dove mi ribadiscono ciò che mi aveva già detto Villa per telefono e dopo avermi consegnato il materiale per il camp (borsa, divise da allenamento e da passeggio) ci diamo appuntamento per il 18 giugno ad Arcevia, la quale vedrò con calma come raggiungere.
   Mentre salgo in macchina per tornare a casa penso all’impressione positiva che mi hanno fatto Russo e Villa. Sembrano molto diversi caratterialmente, ma perfettamente in sintonia per mandare avanti con umiltà la loro società (il Real Casalecchio) e soprattutto il loro camp, camp che sta per tagliare, nel 2018, il prestigioso traguardo dei vent’anni.
   Presto conoscerò molto meglio il Mitico, condividendo con lui giornate intere attorniato da bambini e neo adolescenti.
  

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PARTENZA PER ARCEVIA


   Saputo che Arcevia mi avrebbe ospitato per circa una settimana, cercai appena possibile la sua ubicazione su internet.
  “Toh!” esclamai. “È a un tiro di schioppo da Daniè.”
   Daniè è un amico romano che ha rilevato un agriturismo da poco più di un anno; si trova nel comune di Serra San Quirico, a una ventina di chilometri da Arcevia nell’entroterra anconetano.
   Lo dico ai miei amici, così si decide di approfittare della coincidenza per andare a trovare l’amico Daniele al suo caratteristico casale; potrò così scroccare il passaggio per il vicino comune marchigiano sede del camp.
   Sabato 17 giugno, con l’impeccabile amica Elena alla guida, io al suo fianco e Giulio e Albert sul retro, si parte per Serra San Quirico. Ceniamo e pernottiamo all’agriturismo e la mattina dopo mi accompagnano ad Arcevia. Ci fermiamo nella deliziosa piazzetta del paese. Il tempo di prendere un aperitivo poi contatto Villa che poco dopo manda Tamara, organizzatrice autoctona del camp, a prendermi.
   Saluto i miei compagni di viaggio e salgo sulla macchina di Tamara, direzione campo sportivo. Pochi minuti dopo arriviamo. Entro nel salone dove verranno accolti i giovani calciatori nel pomeriggio per la consegna del materiale (anche per loro borsa più divise da allenamento e da passeggio) e trovo Renato in compagnia di Pedro Mariani e Gianni Piacentini, ex calciatori di serie A e B, che si riveleranno persone di grande spessore umano oltre che colonne portanti dei camp di Chiusi (località nel Senese dalla quale provenivano), Arcevia e Sestola. Faccio anche la conoscenza di Simone Bartoli, altro bel personaggio, ragazzo simpatico ed estroverso che allena al Real Casalecchio di Villa. Li aiuto un po’ a smistare il materiale dopodiché andiamo a pranzo. La mia avventura al camp con i bimbi marchigiani sta per cominciare.


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SI COMINCIA


   Dopo un pranzo luculliano impreziosito da un’eccezionale carbonara, torniamo al campo per ricevere i ragazzi. Il rito della distribuzione del materiale è presieduto dal Mitico, il quale, così narra la leggenda, individua a occhio la taglia di chi ha di fronte e non ne sbaglia una. Nessuno può prendere il suo posto nella sacra cerimonia della vestizione. Chi ci ha provato, narra sempre la leggenda, non ha più fatto ritorno a casa.
   Scherzi a parte, finito il lungo iter delle iscrizioni e della consegna del materiale, possiamo finalmente rientrare al bell’appartamento secentesco che ospita noi istruttori. Siamo ancora talmente pieni dal pranzo che usciamo solo per una birretta e un panino.
   Il giorno dopo si comincia a fare sul serio con il lavoro sul campo. Io ho in gestione la categoria dei più piccoli, che vanno dall’annata 2009 alla 2011. Per la cronaca Pedro Mariani allenerà i più grandi, Simone Bartoli i 2005 e 2006, Davide Gallerani (altro apprezzato allenatore con all’attivo una quindicina di camp che ci aveva raggiunto in mattinata) i 2007 e 2008; Gianni Piacentini è l’ormai insostituibile allenatore dei portieri.
   Non essendo sicuro della categoria che avrei allenato, pur avendo fatto presente a Villa che sono “specializzato” in Piccoli Amici, mi ero portato un quadernone dove avevo segnato le esercitazioni che avrei proposto a seconda del livello qualitativo dei bimbi e della categoria assegnatami.
   Apro una parentesi: l’allenamento deve essere sempre divertente per quanto mi riguarda. Ovvio che per i più piccoli non può essere uguale a quello che fanno i Pulcini di qualche anno più grandi. Man mano crescono bisognerà curare di più la tecnica fino a passare gradualmente alla tattica quando sono Esordienti. Ma l’allenamento divertente deve essere imprescindibile per tutte le categorie giovanili, a maggior ragione per i più piccoli. Il pallone deve essere quasi sempre presente. In una stagione si fanno una media di 60/65 allenamenti ed io cerco di farli sempre diversi, ma la base, diciamo lo scheletro, è composto da una ventina di esercizi che prediligo per divertimento, tecnica e coordinazione. Il bello di allenare è anche il poter sviluppare un esercizio di base migliorandolo, elevandone la difficoltà di modo che possa essere utilizzato sia dai piccoli che dai grandi.
   Come detto avevo preso un quadernone con segnati gli allenamenti che reputo più coinvolgenti per i bimbi ma anche più allenanti per le qualità tecniche e la coordinazione. I bimbi si sono subito divertiti e io ovviamente insieme a loro. Perché come scrivevo in un mio vecchio libro citando un autore sconosciuto: “Per fare felice un bambino bastano un pallone ed un maestro che si ricordi di essere stato un bambino.” Chiusa parentesi.


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ARCEVIESI


   Di Arcevia ho il ricordo di tante belle persone ospitali. Tamara, l’organizzatrice del posto che mi aveva prelevato dalla piazza all’arrivo per portarmi al campo, gentile e disponibile, sempre sul pezzo, per usare una locuzione che amo poco ma che rende l’idea. Ricordo Angelo, il baffuto presidente della locale società di calcio, Luigi l’attivissimo custode, nonno Pierantonietti con il suo marcato accento marchigiano e la simpatia che sprizzava già dagli occhi; ricordo in particolare Simone, un ragazzo che aveva avuto un grave incidente stradale e nonostante i danni fisici riportati ci insegnava a godere ogni istante di quel gran regalo che è la vita.
   Non posso elencare tutte le persone che meriterebbero di essere citate, ma le ringrazio qui tra queste righe. Non abbiamo mai pagato una colazione, eravamo invitati a cena o a un rinfresco tutte le sere; un’ospitalità che non ho mai visto né provato quella degli arceviesi.
   Ricordo infine, ma per primi nella scala dei sentimenti, tutti bimbi che ho allenato, i topini che a volte mi hanno fatto tribolare (ah quanta pazienza che ci vuole per fare l’allenatore di bimbi!) ma che in una sola settimana mi sono entrati nel cuore, facendomi sentire lo zio di tutti.
   “O Mi’!” dicevano per chiamarmi. Dopo due giorni ancora mi chiedevo: “Perché mi chiamano così? Cos’è Omì? Omino? No, dai non può essere: d’accordo che non sono un gigante ma omino no eh!”
   Poi finalmente realizzo che “O Mi’” sta per Mister preceduto dal loro caratteristico intercalare. Come i romani, anche i marchigiani tendono ad abbreviare nomi e parole.
   Durante la settimana “O Mi’”, così come l’inflessione marchigiana, mi entrerà dentro e sarà una delle tante belle cose che mi regalerà Arcevia.
   Quando il venerdì, ultimo giorno di camp, dopo la sontuosa festa preparata da Tamara e i suoi colleghi, ci siamo salutati, ho dovuto fare uno sforzo titanico per reprimere un magone che se solo fosse esploso mi avrebbe fatto piangere come un bambino.
   Grazie bimbi: cercate di rimanere più puri possibile crescendo. E grazie Arcevia, terra di gente con grandi valori.


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DESTINAZIONE SESTOLA


   Sabato mattina ci svegliamo presto. Renato è partito per conto suo con la propria auto. Anche Davide era già partito, il venerdì sera, con la sua macchina: voleva approfittare della breve pausa per passare qualche ora in famiglia. Rimaniamo io, Simone Bartoli, Pedro e il Piace (Gianni). Andiamo in piazza a fare colazione e ovviamente la troviamo già pagata. Vorremmo partire a un’ora consona ma la gente del luogo viene in processione a salutarci e dobbiamo rifiutare una decina di caffè – dopo averne già bevuti mezza dozzina – se non vogliamo essere arrestati in autostrada per guida sotto effetto di stupefacenti.
   Alle 10.30 riusciamo a partire, con Simone alla guida del pulmino del camp, che sembra in procinto di tirare l’ultimo respiro ma che in realtà è come certi vecchietti inossidabili. Il mezzo è carico di materiale (palloni, paletti, coni, borse, maglie, ecc.) e siamo tutti stipati come sardine al suo interno. Il viaggio però è tranquillo e all’una e mezza siamo al campo di Casalecchio dove salutiamo il buon Simone che partirà in aereo per andare in Sardegna al camp di Buddusò. Gianni ha la macchina parcheggiata lì e la prende per raggiungere Sestola, così Pedro si mette alla guida della Miticomobile e io mi accomodo sul sedile anteriore accanto a lui. Un’ora e mezzo ancora e saremo a Sestola.
   Durante il tragitto ho modo di conoscere meglio Pedro, ex di Torino, Bologna, Venezia e tante altre squadre. Vive in Ungheria con la bella moglie e la figlioletta di cinque o sei anni che tutti i giorni lo chiamava per dirgli quanto gli mancasse il suo “papo”. Io la sentivo spesso perché erano videochiamate e si parlavano in vivavoce e ogni volta mi veniva un groppo in gola pensando alla fortuna che ha un genitore per poter dare e ricevere un amore così sconfinato.
   Sono una persona introversa che dà confidenza solo agli amici e alle persone per le quali prova fiducia ed empatia e avendo grande stima di Pedro mi sono un po’ aperto: gli ho raccontato la mia storia, di quanta forza e fortuna ci sono volute per superare alcuni grandi ostacoli della vita; pensando alla sua splendida bimba che lo attendeva a Debrecen gli ho confidato che anche a me piacerebbe aver dei figli.
   “Sei ancora in tempo” ha detto. “Ora hai tantissimi nipoti, perché sai, noi allenatori dobbiamo essere come zii rispettati e amati, come secondi genitori.”
   Noi allenatori abbiamo il dovere di essere fari che provano a illuminare la strada dei bambini. Non siamo i loro padri ma possiamo prenderli per mano e accompagnarli per un tratto, un breve tratto, che li aiuterà un giorno a correre da soli.


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GIORNATA TIPO AL CAMP


   Prima di parlare della prima settimana a Sestola devo spiegare un attimo come funziona il camp, come si svolge, com’è strutturata una giornata tipo.
   Ad Arcevia, dove i bimbi erano del luogo e la sera rientravano nelle proprie abitazioni, il programma era questo: mattina ritrovo e allenamento al campo alle 9.00 o 9.30 a seconda della categoria (dopo che noi mister eravamo stati rimpinzati con paste e caffè offerti al bar della piazza dai prodighi arceviesi), pranzo tutti insieme in un ristorante del centro, relax e giochi (bocce, freccette, ecc.) in un parco adiacente, secondo allenamento alle 16.00 o 16.30 sempre a seconda della categoria. In serata si svolgevano i tornei, solitamente triangolari, suddivisi per annata. Dopodiché ci salutavamo e noi mister potevamo rilassarci, anche se puntualmente venivamo rapiti e riempiti di prelibatezze culinarie da qualche famiglia locale.
   A Sestola il programma è leggermente diverso. Il famoso hotel Miramonti, sede dei ritiri del Bologna ai tempi del Mitico Villa, ospita i giovani calciatori provenienti da tutta Italia. I ragazzi hanno la sveglia alle 8.00, anche se a quell’ora hanno già praticamente fatto tutti colazione. Più tardi si parte con i pulmini per i campi di Sestola, Roncoscaglia e Montecreto a seconda della categoria; si pranza intorno alle 12.15. Nota: una mattina da stabilire si va in piscina. Dopo pranzo si svolgono i tornei di ping pong e biliardino; chi non è impegnato nei tornei può riposare in camera, giocare a carte o ai videogiochi, fare nuove amicizie. Più tardi si riparte con il secondo allenamento giornaliero. Si cena intorno alle 19.15 e alle 20.00 si scende sul campo sintetico di Sestola per il torneo dove i bimbi (così come ad Arcevia) sono impegnati a giocare con i colori del Milan, della Lazio, dell’Italia, del Manchester, del Barcellona, ecc.
   Alle 23.00 gli ultimi pulmini sono ormai rientrati alla base e i ragazzi grandi e piccoli vanno a letto. Si controlla che non facciano rumore e spengano la luce e finalmente intorno a mezzanotte gli istruttori possono staccare la spina.
   Le giornate sono impegnative e si ha giusto il tempo di farsi la barba e lavarsi i denti, ma quando ci si sdraia sul letto si è contenti e appagati per aver dato tanto per il divertimento e l’educazione di tanti ragazzini.



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PRIMA SETTIMANA A SESTOLA


   Giunto a Sestola con il bagaglio di piacevoli ricordi marchigiani, faccio la conoscenza di altri “mitici” personaggi che mi accompagneranno nelle settimane seguenti. Il primo che incontro una volta sceso dalla Miticomobile è Andrea Anleri, responsabile della logistica e tuttofare.
   Io, Pedro e Gianni abbiamo appena il tempo di darci una rinfrescata che il Mitico ci mette a stampare numeri sulle borse da allenamento, procedura che ripeteremo anche sulle divise per far sì che ognuno riconosca e non perda il proprio materiale. Comincio a intuire che se ad Arcevia il ritmo lavorativo è stato incalzante, a Sestola non sarà da meno.
   Renatone si dimostra un condottiero inflessibile che quando c’è da tirare le orecchie non risparmia nessuno, nemmeno suoi amici ex compagni di squadra e coetanei come Pedro e Gianni. Anch’io prenderò i miei cicchetti, anche se inizialmente fatico a capire quando dice sul serio e quando scherza. A volte il boss è brusco, quasi incazzoso quando sente stonare qualche nota, ma è un perfetto direttore d’orchestra. Se da vent’anni manda avanti il camp (insieme a Russo) con successo un motivo sta anche nella sua “durezza”, che però nasconde un cuore. Se c’è da elogiare o premiare qualcuno non esita a farlo.
   Tornando al sabato dell’arrivo, io, Pedro e Gianni stampiamo quindi borse fino a tarda sera. Il giorno dopo è previsto l’arrivo di una comitiva di slovacchi; sarà un’ulteriore sfida nella sfida allenare bimbi di lingua e cultura così diverse, ma ormai comincio ad essere temprato.
   La domenica è una bolgia infernale. Arrivano gli slovacchi, poi gli italiani. I bimbi sono tanti e io non so ancora chi allenerò. Intanto arrivano altri due istruttori: Fabio Monaco detto Pinuccio e il collaudatissimo Alberto Villa, figlio di Renato.
   Pinuccio (soprannominato così per via dell’accento pugliese che ricorda il “Pinuccio rispondi” di Striscia la notizia) si rivela subito un personaggio fondamentale al camp, simpatico e disponibile, vogliosissimo di imparare qualcosa da tutti.
   Il Mitico è un po’ nervoso i primi giorni, si scalda facilmente e se vede qualcuno rilassarsi un momento gli dà incarichi a destra e a manca, a volte superflui penso io.
   Imparo che avrò la categoria dei più piccoli, i 2008 (non ci sono 2010 o 2011 e solo un 2009). Un allenatore slovacco mi accompagnerà sul campo per vedere il mio metodo di lavoro. Fortuna vuole che parli un po’ l’inglese, così visto che anch’io qualcosina riesco a capire e spiegare, ci intendiamo bene con i bimbi che parlano solo la loro lingua.
   Sarà una settimana dura ma appagante anche questa. Di tempo ce n’è a malapena per espletare i propri bisogni corporali. I giorni passano e il Mitico si rilassa, forse capisce che comunque, nonostante i piccoli problemi quotidiani e le difficoltà, il camp sta andando bene. Rimane comunque una macchina da guerra sempre vigile il Renato. Aneddoto: una sera mi manda a fare la ronda per controllare che i ragazzi si comportino bene in camera. Dopo una giornata sempre in movimento sono abbastanza provato, così mi siedo due minuti sulle scale a riposare. Taaac, il Mitico mi becca e mi cazzia. Il giorno dopo, fermatomi per una breve pausa, vengo sorpreso a fumarmi una sigaretta “in servizio”. Altro cazziatone. Sembra farlo apposta. Oh, penso, o ci sono telecamere nascoste o il Mitico in questi anni ha affinato un fiuto animalesco per gli imboscati.
   Arriva finalmente il sabato mattina. Sul campo di Roncoscaglia tutte le categorie giocano le fasi finali del torneo di calcio. Si va quindi tutti in piazza a Sestola per le premiazioni.
   Anche questa settimana è finita e io sono stanco ma contento del mio lavoro.


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PAUSA


   Salutato il pullman di slovacchi ripartiti dopo il pranzo del sabato mi trovo di fronte le uniche ore di reale libertà dall’inizio della mia avventura. Renato Villa è rientrato a Bologna con Pedro Mariani e Andrea Anleri per tornare a Sestola soltanto in serata. Pinuccio è andato a Porretta a trovare la fidanzata; anche Alberto e Davide sono tornati in famiglia per qualche ora. Gianni Piacentini, unico istruttore rimasto in hotel, mi chiede se voglio fare un giro con lui al lago della Ninfa ma devo declinare l’invitante proposta. Voglio riposare, finalmente ne ho la possibilità, l’appartamento dove abbiamo alloggiato la prima settimana è quasi tutto per me. Rimangono  Mattia e Alessio, i due ragazzi preposti al controllo delle camere e tuttofare. Anche loro hanno voglia di riposare così ognuno si corica sul suo letto. Li avevo preceduti di poco, ma non faccio nemmeno in tempo ad appisolarmi che cinque o sei ragazzini – quelli che erano rimasti perché facevano due settimane di camp – entrano in casa e svegliano tutti.
   “Silvia e Simona hanno detto che dovete portarci a prendere un gelato in centro” dicono, anzi gridano a Mattia e Alessio.
   “Li mortacci vostra” penso. “Giovani, un po’ di silenzio, c’è gente che deve riposare qui” protesto io dalla camera attigua come un vecchietto arteriosclerotico.
   Anche Mattia e Alessio protestano ma Silvia e Simona (proprietarie dell’Hotel Miramonti insieme alla mamma Graziella)  fanno in quel momento le veci del Mitico e non si può disobbedire.
   Rimango così solo. Purtroppo però l’abbiocco di prima è passato e non riesco più a prendere sonno. Poco male: ne approfitto per accorciarmi finalmente la barba e farmi una doccia rilassante. Dopodiché esco a farmi un aperitivo in centro. Sestola al calar del sole si riempie di gente e i colori che sfumano verso calde tonalità pastello la rendono romantica e affascinante. Un paio di spritz dopo mi sento rigenerato e rientro in hotel per la cena. Ci siamo solo io, Gianni di ritorno dal lago della Ninfa e Mattia e Alessio distrutti dal lungo pomeriggio da babysitter. Ci sono anche i cinque o sei ragazzini rimasti al camp. Gli altri ritorneranno tra la tarda serata e l’indomani mattina.
   Dopo cena mi concedo un amaro con ghiaccio da gustarmi in tranquillità in veranda. Mentre sono lì a sorseggiare l’ammazzacaffè e a fumarmi una sigaretta chiama al cellulare la mia amica Elena, con cui ero partito per Arcevia due settimane prima. Lei e altri amici mi avevano già chiamato in precedenza ma essendo sempre impegnato non ero mai riuscito a rispondere. In realtà avrei potuto richiamarli durante qualche pausa, comunque sia per la prima volta sento lei e gli altri amici che mi passa. Mi fa piacere sentire dalla loro voce che manco alla combriccola.
   “Oh Mone, allora… hai tocciato il biscotto? Ti sei fatto qualche mamma?” mi chiede Albert, anche lui compagno di viaggio per le Marche giorni addietro.
   “Albe’, ma quale tocciato e tocciato! Qui siamo sempre a lavora’… E poi sono così cotto che manco Belèn me lo fa svegliare…”
   Ah, gli amici. Se non si avessero amici con cui minchionare ogni tanto, la vita sarebbe molto più triste.
   Più tardi arrivano il Mitico, Pedro, Andrea e Sergiu, un altro ragazzo-factotum. Devono ancora cenare così escono per una pizza, io però rimango a guardare il concerto di Vasco a Modena che danno in diretta alla tv. Non resisto molto e alle 23.00 mi ritiro per dormire. Il giorno dopo è domenica e come ho potuto appurare le due settimane precedenti è il giorno più stressante del camp.


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DOMENICA BESTIALE


   Ci svegliamo presto la mattina. A volte penso che Villa sia un po’ sadico nel volerci svegliare presto quando potremmo dormire tranquillamente mezz’ora in più, ma riflettendoci lo fa per avere da subito la situazione sotto controllo. Bisogna infatti cominciare a sistemare il materiale sui tavoli del salone dove verranno accolti i ragazzi, i quali cominciano ad affluire già dalle 8.30. La processione dura fino al pomeriggio inoltrato. Il Mitico consegna come al solito maglie e pantaloncini senza sbagliare una taglia. Altri come Davide, Pedro e Pinuccio stampano i numeri di riconoscimento sulle divise. Gianni è alle prese con le iscrizioni, solitamente materia per Roberto Russo che però si trova ora in un camp sardo. I giovani Mattia, Alessio e Sergiu accompagnano i ragazzi alle camere.
   Io devo inventarmi qualcosa, almeno fare finta di essere impegnato, o il Mitico è capace di mangiarsi le mie chiappe per cena. Mi aggrego a Mattia & C. anche se in realtà non hanno bisogno di me.
   Più tardi arrivano Alberto Villa (che porta con sé la famiglia) e l’istruttore Ettore detto Cibi, amico di vecchia data nonché ex compagno di squadra di Renato.
   Tutto procede secondo i piani e nel tardo pomeriggio, alloggiati tutti i ragazzi, facciamo un giro in centro a Sestola; torniamo per cena e dopo cena… altro giretto in paese per digerire.
   Io ho colpito il Mitico con le mie doti grafiche, così rimango in albergo a fare cartelloni con orari, camere, squadre per i tornei, calendari, ecc.
   I giovani tornano e vengono portati in camera, seguiti anche dagli istruttori (a parte io che sono alle prese con i cartelloni) per placare qualche eventuale e normalissimo attacco di mammite.
   Intorno a mezzanotte tutti dormono e io finisco il mio lavoro. Posso finalmente andare a dormire. Sono stato spostato dall’appartamento (ora occupato da Davide e ben undici bambini) alla camera numero 4 al primo piano dell’hotel. La divido con Fabio-Pinuccio, che purtroppo si dimostra uno dei più grandi russatori mai conosciuti, una sorta di martello pneumatico vivente. Io ho il sonno che più leggero non si può e mentre cerco in tutti i modi di dormire prevedo che sarà un’altra settimana dura. Non ho fatto il militare ma da qui esco forgiato come un marine americano, penso. Mi viene pure in mente il cartone animato dell’Uomo Tigre e la famosa Tana delle Tigri nella quale fanno una dura gavetta i campioni del wrestling… Ne uscirò fortissimo!
   “Sgrrrauuuch sgruuunt rooonf…” continua a fare intanto Pinuccio al mio fianco.
   Infilo la testa sotto il cuscino e prego un eventuale Dio affinché mi faccia addormentare al più presto.


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SECONDA SETTIMANA A SESTOLA


   Una volta sul campo noi allenatori siamo nel nostro elemento naturale e il tempo scorre in fretta. A me vengono assegnati ancora i più piccolini: 2008 e 2009. Ho un gruppo di sedici bimbi, dodici 2008 e quattro 2009. Sono fortunato anche ‘sto giro: a parte dover sedare qualche piccolo litigio i giovincelli sono tutti bravi e disciplinati. Sei o sette li ha portati Davide Gallerani, che era il loro allenatore in quel di Renazzo nel Ferrarese; continuo intanto a chiedermi come faccia Davide a gestire una dozzina di bimbi in un appartamento con un solo bagno in comune, eppure a fine camp mi dirà che sono stati ineccepibili, sia per il comportamento che per l’uso della toilette.
   Noto che la seconda settimana a Sestola il cibo che ci servono al Miramonti è leggermente migliore come qualità. Non che prima non fosse buono, ma forse gli slovacchi, non avendo la nostra grande cultura culinaria, avevano suggerito un menù un po’ meno prelibato per i palati italici.
   Ho sempre una fame atavica con tutto il movimento che faccio e prendo il bis di tutte le portate, soprattutto quando passa il vecchio Cesare (cameriere al Miramonti da mezzo secolo) che tende ad abbondare con le porzioni, stando però attento che il Mitico non mi sgami. Anche sul mangiare lancia spesso frecciatine che non ho ancora imparato a distinguere: scherza o è serio?, mi chiedo.
   Vero è che con lo scorrere dei giorni, anche questa settimana il buon Renato si rilassa. Scherza sempre con i ragazzi del camp (quando però c’è da sgridarli non perde giustamente mai un’occasione) e complice la venuta a Sestola del nipotino piccolo (figlio di Alberto) appare agli occhi di tutti meno burbero, un bravo nonno giocherellone.
   Questa settimana ho un onere in più: devo gestire le buste con i soldi che i genitori hanno lasciato ai bimbi per gli extra, che significa perlopiù comprare gelati, caramelle e “schifezze” varie. Alcuni, nonostante i miei consigli, non arrivano al mercoledì, così quando vengono con la faccia triste a supplicarmi un paio di euro non mi faccio impietosire e perseguo la politica del “mi dispiace ma non ho più soldi nemmeno io” adottata  il primo giorno quando, nella gelateria del centro, quelli che non avevano soldi li chiedevano a noi mister. È stata la miglior mossa tattica che potessi fare, mentre il buon Cibi, che aveva fatto l’errore di dare un euro subito al primo che glielo aveva chiesto, veniva sommerso da uno sciame di cavallette ogniqualvolta si andava fuori.
   Il venerdì è stato il giorno in cui mi sono detto: “Ce l’ho fatta.” Con quel ce l’ho fatta intendevo CREDO-PROPRIO-DI-AVER-FATTO-UN-BUON-LAVORO. Era solo un mio pensiero, ma il giorno prima Pedro aveva fatto notare a noi istruttori che Renato si era sbilanciato come raramente gli capitava – e lui lo conosceva bene! – dicendo che avevamo fatto un gran lavoro ed eravamo uno staff di prim’ordine.
   Sempre quel venerdì pomeriggio Pedro diede l’annuncio: “Renato ci ha dato il permesso per andare a casa del Barba stasera!”
   Scopro così che l’appuntamento a casa del Barba è ormai un rito per gli allenatori che transitano nel paese dell’Appennino modenese. Barba guida i pulmini (perché non c’è solo la Miticomobile) che portano i ragazzi nelle varie location e dà una mano a Villa sin dai primi camp; ha una casa deliziosa non lontana dal centro da dove si gode un panorama fantastico.
   Io sono cotto e andrei volentieri a letto, visto che per il sabato mattina il Mitico ha minacciato – non si sa se per scherzo o sul serio, come sempre – la sveglia alle 6.00. Fatto sta che usciamo dal Miramonti a mezzanotte per andare dal Barba. Siamo io, Davide, Gianni, Andrea, Cibi, Pedro e Pinuccio. Davide e Gianni, temerari, prendono la propria macchina. Gianni dice che faremo solo una spaghettata e un brindisi e torneremo alla base, ma dai racconti sulle “feste di chiusura dal Barba” sentiti in particolare da Pedro non credo molto alla toccata e fuga…
   Infatti, dopo aver sacrificato un salame intero e aver fato fuori due chili di spaghetti aglio, olio e peperoncino, il Barba mette a cuocere delle tagliate giganti. Sono presto pieno come un otre, anche perché a cena in hotel come al solito non mi ero risparmiato, mangiando come un porco. Insieme al cibo facciamo fuori qualche bottiglia di vino, oltre a degustare, diciamo così, svariate grappe, limoncello, nocino, prugnino, ecc.
   Sazi di cibo, “liquidi” e risate, alle 3.30 siamo in hotel.
   “Se ci becca Renato adesso, ci manda tutti in Siberia il prossimo camp, altro che Sestola” dice qualcuno.
   Ci facciamo ancora due risate e ci salutiamo leggermente barcollanti.
   Per una volta il russare di Pinuccio non mi dà problemi, infatti collasso immediatamente e solo la sveglia che dà il Mitico alle 7.00 (fortuna che scherzava quando diceva le 6.00!) mi ridesta dal mio sonno per una volta pesante.
   È sabato, sono spappolato, ma è l’ultimo giorno di camp e il pensiero di fare l’ultimo sforzo per tagliare di corsa il traguardo mi dà la carica.



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ULTIMO GIORNO


   Alle 8.15 siamo già tutti al campo di Roncoscaglia. Come al solito i primi a giocare il torneo sono i più grandi. Nel frattempo, come la settimana precedente, io e Andrea buttiamo giù la scaletta per le premiazioni che leggerà Pedro o Renato. Finito quel compito vado ad arbitrare un paio di partite per poi finire a dirigere i miei 2008 e 2009 nell’ultimo triangolare. Alle 12.15 siamo in piazza per le premiazioni. C’è tanta gente e tutto va per il meglio.
   Rientriamo in hotel per pranzare. Io tornerò a casa in macchina con la famiglia di un bambino che ho allenato e che abita al mio paese. Si respira l’aria festosa ma allo stesso tempo malinconica degli addii, anche se per molti è solo un arrivederci. I bimbi ci salutano, si fanno firmare le foto o le maglie da noi istruttori, molti si commuovono. Non provo più il magone venutomi nel salutare i bimbi di Arcevia, ma il momento rimane comunque emozionante.
   A parte i bambini, il primo che saluto è proprio il Mitico. Ci stringiamo la mano e guardandoci negli occhi mi accorgo che è… umano! Senza la corazza da camp vedo la sua natura. Buona. Prima di andarsene mi fa una proposta che mi aveva già fatto giorni prima e che avevo rifiutato solo perché avevo già dato parola alla società in cui alleno da qualche anno che sarei rimasto un’altra stagione ad allenare la scuola calcio.
   “Vieni da noi al Real Casalecchio?” mi aveva chiesto. “Pensaci bene, è un’ottima opportunità professionale.”
   Lo sapevo bene che era un’occasione ghiotta, ma è arrivata nel momento sbagliato. Certamente avrei potuto dire ai miei dirigenti che avevo cambiato idea (non sarei stato né il primo né l’ultimo a mangiarsi la parola, la quale, detto tra noi, se si viene pagati adeguatamente diventa assolutamente commestibile e digeribile…) ma ormai avevo deciso così.
   Rimaneva però un dato di fatto che mi inorgogliva: se Renato Villa insisteva per avermi con sé, significava che probabilmente qualche qualità come allenatore di bambini ce l’ho. Questo pensiero mi rende felice perché è sintomatico del fatto che la passione, l’impegno e la serietà pagano davvero.
   E così saluto il Mitico. Dopodiché i saluti toccano agli altri: Davide, Andrea, Alberto, ecc. Sembra che tutti siano concentrati a non far trapelare troppo l’emozione. L’ultimo che saluto è Pedro. Ci abbracciamo e intanto mi dice: “Arrivederci Simo, sei una bellissima persona.”
   A queste semplici parole faccio fatica a trattenere le lacrime. Noto che anche Pedro è commosso. Per non piangere mi tocca essere sbrigativo.
   “È stato un piacere e un onore lavorare con te e con gli altri, vi stimo tantissimo” dico allontanandomi.
   Carico i bagagli in macchina. Mentre lascio Sestola penso agli sguardi che parlano, ai piccoli gesti, alle poche parole di elogio che essendo appunto poche odorano maggiormente di sincerità. Di queste cose ho fatto il pieno durante queste tre settimane di camp. È stata un’esperienza faticosa ma estremamente appagante, dove sono cresciuto imparando e confrontandomi con persone eccezionali e grandi personaggi.
   Si torna a casa con il pieno di benzina per proseguire al meglio la strada.


12

COSA IMPARANO I RAGAZZI AL CAMP


   Una o due settimane di camp sono un lasso di tempo molto breve, eppure in questi pochi  giorni i bambini e i ragazzi che lo vivono hanno l’opportunità di fare un’esperienza di estremo arricchimento.
   Intanto si allenano mattina e pomeriggio con istruttori qualificati che, anche se non hanno il tempo materiale di trasformarli in campioni (lungi comunque da me l’idea di voler trasformare un bimbo in un campione!), mettono a disposizione il loro bagaglio tecnico ed empirico per far compiere ai giovani qualche passo in più sulla strada del miglioramento.
   I ragazzi si divertono (il comandamento numero uno della bibbia del calcio, per quanto mi riguarda) e stando insieme imparano le regole della convivenza.
   Per quelli che rimangono soli per una o due settimane senza genitori – quindi non mi riferisco al day camp – l’esperienza è ancor più formativa. Soprattutto per i più piccoli è un’opportunità di crescita caratteriale importantissima. Imparano a stare senza mamma e papà e ad arrangiarsi. Quelli a cui vengono dati soldi possono decidere se darli al mister o gestire personalmente il proprio budget. Chi lo consuma tutto dopo due giorni avrà imparato una grande lezione di economia!
   I mister sono anche, direi soprattutto, educatori. Posso garantire che tutti gli istruttori con cui ho avuto a che fare al camp sono uomini in grado di educare, perché non è una dote da tutti saper educare, sia chiaro. È altresì chiaro che in pochi giorni non si può coadiuvare scuola e famiglia nell’evoluzione pedagogica di un giovane, però qualche seme si può sicuramente gettare nel terreno ancora fertile delle menti e dei cuori giovani.
   Certo, ho visto ragazzi maleducati che immagino diventare adulti imbecilli senza possibilità di salvezza, ma questa è la vita…
   Se sarò al camp del 2018 – quello dell’importante traguardo dei vent’anni – non lo so. Vivo da sempre il presente, concentrandomi sull’oggi, l’unico tempo che conosco. Se mi guardo indietro per rivedere questo camp da poco concluso, posso affermare che insieme ai ragazzi che ho allenato sono cresciuto anch’io. Ho insegnato e imparato. Ho dato e ricevuto. Sento di aver fatto qualcosa di buono per i bambini. E questo, in un certo senso, è IL SENSO. Facciamo del nostro viaggio terrestre un viaggio “mitico” donando sempre agli altri il meglio di noi stessi.


13

RINGRAZIAMENTI


   Ringrazio Renato Villa e Roberto Russo per avermi dato l’opportunità di essere un istruttore del loro camp.
   Ringrazio tutti gli allenatori con i quali ho condiviso questa esperienza.
   Ringrazio tutte le persone citate in questo racconto; ringrazio anche quelle non citate ma che hanno vissuto con me questi giorni in modo diretto o indiretto.
  Un grazie particolare ai bambini, presente e speranza futura dell’umanità.


14


GALLERIA FOTOGRAFICA











INDICE


1 PRIMI CONTATTI CON IL MITICO VILLA pag.

2 PARTENZA PER ARCEVIA pag.

3  SI COMINCIA pag.

4 ARCEVIESI pag.

5 DESTINAZIONE SESTOLA pag.

6 GIORNATA TIPO AL CAMP pag.

7 PRIMA SETTIMANA A SESTOLA pag.

8 PAUSA pag.

9 DOMENICA BESTIALE pag.

10 SECONDA SETTIMANA A SESTOLA pag.

11 ULTIMO GIORNO pag.

12 COSA IMPARANO I RAGAZZI AL CAMP pag.

13 RINGRAZIAMENTI pag.

14 GALLERIA FOTOGRAFICA pag.

martedì 31 ottobre 2017

43

43
(ovvero l’incontro tra il Simone di oggi e quello di 25 anni fa)

   Sono molto pudico, ma oggi non importa, mi spoglio davanti a tutti; che poi, essendo un post più lungo di cinque righe, le mie nudità le osserveranno solo pochissimi spiriti affini.
   Ebbene sì, amici miei, tra qualche giorno compio 43 anni, a meno che la Morte non mi agguanti poco prima del traguardo. Da non crederci, vero? Vivo sulla Terra da circa 15.700 giorni. Quando è uscito il risultato sullo schermo della calcolatrice (ché in matematica sono una pippa) ho esclamato: “Beh, neanche tanti!” Invece per un essere mortale comincia ad essere un numero importante. Sarà difficile raddoppiarlo, vivere altrettanto tempo; da questa prospettiva mi vengono in mente le parole del cantante Alessandro Bono, che all’epoca sentiva già la Morte battergli sulla spalla: “Ogni giorno che va via è un quadro che appendo.”
   Quanti di quei 15.700 giorni sono stati memorabili? Calcolo improbo. E poi mi sembra una domanda stupida, come se i giorni brutti o mediocri fossero da scartare. Ogni giorno è degno di essere vissuto e apprezzato, pur sapendo che i giorni da incorniciare veramente (i quadri da appendere…) non sono stati e non saranno tantissimi.
   Dopo questo noioso preambolo, faccio un tuffo nel passato. Torno indietro nel tempo di 25 anni. Quando avevo 18 anni, appena maggiorenne, come mi immaginavo a 43?
   Appare proprio il giovane Simone a rispondere: “Con un lavoro” esordisce, “magari dopo aver fatto una buona carriera calcistica, una moglie, dei figli, una casa, due macchine, persino un cane, due gatti e tre pesciolini rossi.”
   Senti come ride il diciottenne di allora mentre dice questo in faccia al quarantatreenne di adesso, uno che campa ancora di pane, birra e fantasia. Aspetto che smetta e che mi passi l’iniziale irritazione, poi gli dico a muso duro: “Guarda che questo quarantatreenne sei tu, coglione!”
   Si fa serio. “Vuoi sapere com’è andata?” gli dico. Annuisce silenzioso, realizzando che IO sono LUI…
   Avevo talento come calciatore e anche tanta passione. Volevo diventare professionista, fare una carriera più brillante di quella di papà che aveva giocato alcuni anni in serie A. Volevo renderlo orgoglioso di suo figlio. Ah ah ah, scusa se rido io adesso, oh mio ingenuo diciottenne, ma ora che vedo bene il film della mia vita ti posso garantire che non avevo – non avevi! – nessuna possibilità di farcela. Ero un fragile fiore senza radici, un immaturo di una sensibilità e una timidezza imbarazzanti. Come potevo anche solo pensare di farmi strada in un mondo di squali come quello del calcio e nel mondo in generale?
   Il mio carattere era d’ostacolo pesino ai rapporti interpersonali e sentimentali. Ricordo quasi come una tragedia  il periodo dell’adolescenza e gli anni successivi. Ho fatto grandi cazzate, avendo la fortuna di non commetterne di irrimediabili. Ho rischiato l’autodistruzione. Gente molto meno fragile di me si è suicidata nelle mie condizioni, caro giovane Simone. Ho attraversato il fiume delle droghe e dell’alcol, per fortuna senza farmi spazzar via dalla corrente. A volte ancora mi chiedo come sono sopravvissuto, eppure sono qui a raccontartelo.
   Cosa mi ha salvato? Non certo Dio, che non esiste. Se proprio vogliamo tirare in ballo un’”entità superiore”, ti dirò che quel Dio si chiama Anima, nello specifico la Mia Anima, la quale, insieme alla fantasia, mi ha tirato fuori dalle sabbie mobili che mi stavano inghiottendo.
   Hai capito perché sono ancora vivo, caro diciottenne? Perché avevo delle passioni e non ho permesso ai miei sogni di naufragare insieme alla mia carriera calcistica. Perché ho continuato a giocare a calcio – con immutato piacere – in categorie minori, perché ho scoperto le inimmaginabili proprietà terapeutiche della scrittura, perché ho sfogato la creatività disegnando fumetti e vignette, perché ho letto tanto, studiato, meditato, riflettuto. Ho spezzato le catene che società, religione, scuola, educazione fallace, eccetera mi avevano legato al cervello fin dalla nascita.
   Dopo i trent’anni ho cominciato a intuire qual era la mia vera strada, quella che mi indicava da sempre la flebile voce di un’anima sepolta sotto quintali di letame. Nel frattempo scrivere e pubblicare libri era diventato quasi come respirare, e a 33 anni ho scoperto un’altra passione vitale: allenare bimbi. Da dieci anni anche questa è diventata benzina per il mio spirito.
   E adesso, caro Simone di 18 anni, vieni tu nel presente. Vieni, vieni. Guardami bene, guarda quest’uomo di 43 anni. Come mi vedi? Ti viene ancora da ridere? Ti sembro forse un vecchio fallito? Fregancazzo, sai?! Mi importa solo che i miei genitori, i miei cari più intimi e coloro che amo e mi amano, mi stimino per quello che faccio, che sono e che sto diventando.
   Da qualche tempo, come se un fulmine mi avesse colpito spalancando le porte della coscienza, sento nitidamente la voce della mia anima e vedo persino l’aura dell’anima di chi ho vicino. Questa è una mezza condanna perché certi “poteri” ti isolano facendoti sentire estremamente solo, oltre a farti percepire da altri come un matto. Ho sempre convissuto con la solitudine, ma ora sta raggiungendo picchi irreversibili, soprattutto quando sono in mezzo alla gente: non riesco più a parlare la loro lingua e le loro parole mi annoiano enormemente.
   Eeeh caro giovane, vedi dunque chi sei diventato? Ti fa schifo? So bene che avresti una grandissima voglia di “normalità”, purtroppo però ti è preclusa dal tuo ESSERE. Fattene una ragione. In questi anni il mio ESSERE mi ha portato via amicizie (ci pensa sempre LUI a scremare naturalmente), amori, persino un figlio, che era – e rimane – il più grande sogno della mia vita. Ma vado avanti. Cos’altro posso fare?
   A 43 anni, mio bel Simone di 18, mi sento libero, vitale, ho raggiunto alcuni obiettivi e ho ancora tanti sogni. Ti garantisco che è una ricchezza che vale più di tutto l’oro del mondo. Guarda i miei coetanei, anche quelli più giovani: ti sembrano sopravvissuti ai loro anni? La maggior parte sono morti da tempo e nemmeno se ne accorgono nel loro vegetare quotidiano.

   Ora vado a scrivere, anche e soprattutto per le anime sopite. Sembra l’impresa di un povero pazzo, ma lo faccio con passione e la passione è vita. E adesso, oh mio mai rimpianto diciottenne, puoi ricominciare a ridere se vuoi.  Fai almeno tesoro di queste parole.

giovedì 7 settembre 2017

Racconti della raccolta VOLEVO SOLO ESSERE NORMALE (parte 4)


COMA ETILICO


“L’ennesimo coglione che oltrepassa il limite, eh! Come andiamo?”
   “La situazione è stazionaria.”
   Li sentivo chiaramente. Non distinguevo le voci perché il tono sembrava identico e asessuato, ma sapevo che la domanda l’aveva posta il medico in visita e la risposta l’aveva data l’infermiera che lo accompagnava.
   Blaterarono qualcosa che non ascoltai riguardo il contenuto della flebo e le iniezioni che dovevano farmi; mi ero estraniato perdendomi in un mondo molto più grande e incredibile di quello reale. Stavo viaggiando per le sterminate praterie del mio cervello.

   Non sapevo come avevo fatto a ridurmi in quello stato. Me lo avevano però ricordato i discorsi dei medici, del personale ospedaliero, dei parenti e degli amici che venivano a trovarmi, discorsi che udivo a loro insaputa.
   Avevamo festeggiato la morte di Tony. Non che fossimo felici che fosse morto, è ovvio, ma era stato lui a pochi giorni dalla fine a dirci che avrebbe voluto una festa per il suo funerale, e non facce tristi e lacrimose.
   Solo io, Orso, Gnagno e Teresa avevamo colto lo spirito (alcolico) della sua richiesta, così ci eravamo trovati al Sirius subito dopo il funerale. Avevamo iniziato a brindare alla memoria dell’amico scomparso alle cinque del pomeriggio e alle tre di notte ci stavamo ancora dando dentro. Il locale era deserto. Mamo, il proprietario, si era unito a noi offrendo una bottiglia di champagne.
   I miei amici erano tutti su di giri ma non avevano bevuto quanto me. Alle tre e un quarto – stando a quanto diceva Teresa a un’infermiera accanto al letto dove giacevo – avevo tracannato tutto d’un fiato l’ultimo bicchiere di rum ed ero collassato.

   Ah come sto bene qui. Spero di rimanerci il più a lungo possibile. Posso essere chi voglio, fare ciò che voglio. Come nei sogni non so come andrà a finire, però la trama in un certo senso la decido io. Anche quando si tratta di incubi.
   In questo momento sono un misto tra Charles Bukowski e Drugo Lebowski. Siedo su uno sgabello al bancone di un bar di periferia, ubriaco fradicio. La barista mi offre un White Russian porgendomi contemporaneamente un libro.
   “Mi faresti un autografo?” dice timida. “Sai, sei il mio scrittore preferito. Ti leggo da anni.”
   “Certo” farfuglio io con la lingua impastata. “Basta che quando finisci il turno vieni a letto con me.”
   “D’accordo.”
   Il viaggio finisce dopo averla scopata a pecorina in una lussuosa suite d’albergo.

   “Ciao Simone, come stai? Se mi senti, ti prego, torna da noi. Ci manchi da morire.”
   È mamma. La voce è monocorde, potrebbe essere chiunque, ma sento che è mamma.
   “Dai che sei forte. Ce la farai.”
   Questo invece è papà.
   Li lascio alle loro piagnucolose speranze e parto per un altro viaggio.
   Stadio Olimpico di Roma, derby Lazio – Roma. Sono il numero 11 della formazione biancoceleste e sto giocando una grande partita. Il pubblico mi osanna. Parte un cross dalla sinistra, arrivo in corsa e impatto il pallone al volo, che va a infilarsi all’incrocio dei pali facendo letteralmente esplodere lo stadio. Esulto mentre vengo sommerso dall’abbraccio dei compagni di squadra.
   La felicità che provo in quel momento, ne sono certo, non l’ha mai raccontata nessuno scrittore al mondo.

   “Quanto cazzo hai bevuto Mone?! Dioscalzo, se volevi battere il record dei record di sbronza ci sei riuscito alla grande.”
   Mi sembra Orso quello che parla. Me lo conferma Gnagno.
   “Hai ragione Orso. Non ho mai visto un essere umano ingurgitare tanto alcol. Tu Mone non sei normale!”
   Basta vi prego, tornate a casa che io devo viaggiare…
   Parto per la Spagna. Sono un torero. Il toro è un uomo nudo con la vagina al posto del pene e due corna lunghe e affilate che mi ricordano quelle di un triceratopo. Mentre ci avviciniamo per sfidarci noto la somiglianza dello strano essere che ho di fronte con il leghista Salvini. Gli mostro il drappo rosso per provocarlo e lui mi carica. Evito agilmente le sue corna e con un movimento repentino lo infilzo tra le chiappe.
   Il triceratopo Salvini cade a terra stecchito ma dal culo cominciano a fuoriuscire tanti piccoli mostriciattoli: un mini Berlusconi, un mini Renzi, un mini Obama, un mini Putin, un mini Assad, eccetera. Se resto nell’arena so di non avere scampo, così scappo via.

   “Mone Mone, quanto ti ho amato! E tu non mi hai mai cagato.”
   Eccola Teresa. Deve essere per forza sola per dire questo. Non sa che posso udirla.
   “Eppure siamo sempre andati così d’accordo. Non puoi negare che tra noi c’era un’empatia rara. Saremmo stati una coppia perfetta se solo ti fossi innamorato almeno un po’ di me. Invece niente, neanche un bacio, se escludiamo quell’unica volta che siamo finiti a letto da ubriachi. Tu ci hai messo mezz’ora a drizzare e una volta drizzato sei venuto dopo tre secondi, ma vabbè… è stato comunque memorabile…”
   “Mi scusi ma deve lasciare la camera.”
   È arrivata l’infermiera e Teresa se ne va. È l’ora delle abluzioni.
   “Ma che bel pistolino che abbiamo qui” la sento dire. È evidente che nella stanza siamo solo io e lei, nessun’altra infermiera o dottore la accompagna. “Se ti riprendi mi sa che te lo vengo a succhiare una sera. Magari ti invito fuori a cena.”
   Aiuto. Vorrei partire per un viaggio ma non ci riesco.
   “Sistemiamo questo catetere adesso… et voilà… finito. Ora vado mio bel patatino, tra un po’ arriva il dottore a visitarti.”
   Silenzio. Se n’è andata, ma non riesco a vivere nessun’altra esperienza. Silenzio e buio nel mio cervello, e forse anche lì fuori nella stanza che mi ospita.
   “Penso proprio che si risveglierà presto. La ripresa è netta.”
   Le parole del doc non mi fanno nessun effetto. Sto bene dove sono, non mi va di tornare nella realtà dei mentecatti.

   Finalmente riparto per un nuovo viaggio. Sono ai nastri di partenza di una maratona. Ho il pettorale numero 144. Lo starter spara e la gara comincia. Non sono sicuro ma credo di essere a New York; i partecipanti sono migliaia, così come migliaia sono gli spettatori che tifano calorosi ed eccitati ai bordi della strada.
   Corro senza pensare di arrivare primo, anche perché sono molto indietro e tra i concorrenti ci sono molti professionisti. Corro per il piacere di correre. Corro godendomi la corsa. Dopo alcune ore di gara mi affianco a un giovane corridore e gli chiedo: “Ehi, ma quanto è lunga questa maratona? Mi sembra che abbiamo abbondantemente superato i 42 chilometri regolamentari…”
   “Come, non lo sai?” mi fa lui. “Vince chi rimane in piedi per ultimo. Chi si ferma muore.”
   Non approfondisco. Conoscevo anch’io le “regole” alla partenza, ma non so perché le avevo dimenticate.
   Dopo si cominciano a vedere i primi morti sulla strada. Più vado avanti più cadaveri ci sono a ostacolare il percorso. In alcuni tratti bisogna calpestarli per proseguire.
   Sembra che la maratona onirica duri da giorni. Ad un tratto mi sento esausto e vorrei fermarmi, ma un tifoso appostato dietro a una siepe mi grida di resistere, che siamo rimasti in due: io e il maratoneta che mi precede di qualche metro. Il tifo si accende. Chi resta in piedi è salvo.
   Lo raggiungo, entrambi stiamo per cadere, la fatica ha da tempo oltrepassato limiti umani. Ma devo resistere. Ecco che il mio avversario superstite vacilla; fa ancora qualche passo e cade. Con un balzello che mi costa le ultime energie evito che mi travolga. Sono salvo.

   Apro gli occhi. Davanti a me c’è mamma che con il suo sorriso di felicità quasi mi abbaglia.
   “Dottore! Dottore! Infermieraaa!” grida uscendo in corridoio.
   Arriva un’infermiera, forse è quella che mi voleva fare un pompino, ma non ne sono certo. Tra l’altro è un vero cesso.
   “Simone mi senti?” chiede.

   Certo che ti sento, penso rimanendo zitto. Chiudo gli occhi. Vorrei ripartire per un viaggio fantastico ma non è più possibile. Ormai sono nella realtà e l’unica cosa certa è che appena sarò di nuovo in piedi avrò una maratona da correre.


LA STANZA MURATA


Quando il dottore disse che gli rimanevano al massimo tre mesi di vita, la prima cosa che fece Alessandro fu riunire i genitori e i fratelli Samuele e Sara per annunciar loro le sue ultime volontà.
   “Lo so che sembra una follia e se ci penso non riesco a dare una spiegazione logica, ma vi prego, quando sarò morto, oltre a spargere le mie ceneri nei luoghi che mi hanno visto crescere, vorrei che faceste murare questa stanza, la mia camera da letto da quando sono nato. Porta e finestra, così che nessuno vi possa più entrare.”
   I famigliari si guardarono senza lasciar trasparire ciò che in realtà pensavano tutti, e cioè: “Boh, una cosa più assurda non poteva chiederla, ma se è questo che vuole vedremo di accontentarlo…”
   Papà Piero tranquillizzò il moribondo dicendogli che lo avrebbe fatto. Erano i primi giorni di maggio del 1994.
   Alessandro spirò nel suo letto il 17 luglio di quell’anno. Esalò l’ultimo respiro proprio nel momento in cui Baggio sbagliava a Pasadena il rigore che decretava il Brasile Campione del Mondo. L’Italia era in lutto.
   Dopo il funerale Piero fece ciò che gi aveva chiesto il figlio. Lui stesso murò la stanza così com’era, con tutto ciò che conteneva: libri e soprammobili sugli scaffali, foto alle pareti, vestiti negli armadi, carte, documenti, diari e scritti vari nei cassetti. Mamma Paola aveva spolverato e rassettato la camera del giovane scomparso – aveva 27 anni ancora da compiere – fino a un momento prima che il marito cominciasse a posare i primi mattoni, rifacendo il letto come se Alessandro dovesse tornare da un momento all’altro e ripetergli quelle parole che se prima non ascoltava neppure, adesso pesavano sul suo cuore di madre come un macigno: “Dai Ma’, lascia stare il letto che tanto stasera lo disfo di nuovo. Che lo rifai a fare?!”
   Per oltre vent’anni la stanza di Alessandro rimase murata.

   Nel novembre del 2015, nella casa dove aveva vissuto Alessandro con i genitori e i fratelli per tanti anni, abitava Mattia con la futura sposa Jessica. Mattia era figlio di Samuele, il fratello maggiore di Alessandro, che viveva anch’esso lì con la moglie Loretta. I genitori Piero e Paola erano morti a un paio d’anni di distanza nei primi anni del Duemila, mentre Sara si era trasferita a Firenze a convivere con la compagna Naike.
   Mattia decise che era ora di abbattere quel muro che impediva ad una stanza della casa di essere sfruttata. Non ci mise molto a convincere il padre che era una stupidaggine tenere murata la camera dello zio morto ormai da “secoli”.
   “E poi babbo” disse per sgombrare il campo dalle ultime titubanze, “visto che io Jessica stiamo per sposarci, avremo bisogno di una camera per i bambini.”
   Samuele telefonò a un amico muratore che a fine novembre eseguì il lavoro, riaprendo la porta e la finestra murate anni addietro.
   Quando Samuele e Mattia entrarono nella stanza preceduti dal muratore, rimasero tutti a bocca aperta. Sembrava che Paola fosse appena passata a pulire. Ma la cosa più strana – tant’è che più tardi si chiesero se non lo avevano sognato – fu quella specie di aurora boreale che videro apparire nel centro della stanza e che si dissolse dopo una decina di secondi dal loro ingresso.
   Nei giorni successivi Mattia pensò di sbarazzarsi di tutta la roba contenuta nella stanza.
   “Babbo, che ne dici di regalare i libri al tuo amico che fa i mercatini e i vestiti alla Caritas?”
   “Buona idea. Però non gettare i diari e i racconti. Lo zio amava molto scrivere e buttarli sarebbe offenderne la memoria. Comunque decidi tu, ci sono già troppe scartoffie in questa casa.”
   Mattia si mise a scartabellare tra le migliaia di fogli sparsi nei cassetti. Lesse qualche racconto.
   “Che cazzate!” commentò prima di mettere tutta quella mole cartacea in un sacco che sarebbe finito nella spazzatura.
   Passò ai diari. Su quelli si soffermò un po’ più a lungo, perché era curioso di leggere del passato della sua famiglia. Lesse saltando in qua e in là per oltre un’ora poi cominciò ad annoiarsi e ritenne che nemmeno i diari meritassero di essere conservati. Gettò nel sacco anche quelli e chiamò mamma Loretta ad aiutarlo a trasportare il tutto nel bidone della spazzatura. Quella notte riapparve per un istante l’aurora ma nessuno la vide.
   Alcuni giorni dopo Mattia cadde in una profonda depressione. Faceva incubi terribili che non ricordava mai nitidamente al risveglio; gli sembrava solo che fossero ambientati nella stanza di Alessandro.
   Incominciò ad avere paura di quella camera. Le volte che metteva il naso al suo interno gli sembrava di vedere lo zio sdraiato sul letto che lo fissava con sguardo demoniaco.
   Passarono i giorni. Mattia era sempre più depresso e terrorizzato. La mattina della Vigilia di Natale, papà Samuele, non vedendo scendere il figlio per il pranzo, lo andò a chiamare nella stanza che condivideva con Jessica. Lo shock lo colpì come un pugno nello stomaco appena entrò. I pezzi del corpo di Jessica ricoprivano il letto matrimoniale. Sangue e budella imbrattavano pareti e pavimento. La testa della ragazza era appoggiata sul comodino.
   Samuele si diresse sconvolto nell’ex stanza del fratello, come attirato da una forza misteriosa. Socchiuse la porta, che era stata montata giorni prima, e un alito gelido lo investì. Prima di vedere il figlio Mattia sdraiato sul letto, senza vita, con le vene tagliate e il sangue che ancora sgorgava, notò un’aurora fascinosa ma sinistra aleggiare nella stanza. 


SESSSO
  
La relazione con Martina è durata circa quattro mesi. Ci eravamo lasciati una settimana prima, di comune accordo, senza che uno o l’altra dicesse “ti lascio”. Ci siamo semplicemente guardati negli occhi dopo una discussione e abbiamo capito entrambi che la nostra storia era finita.
   Troppo diversi. A volte la diversità può essere un collante potentissimo, non nel nostro caso però. Stavamo bene insieme, eravamo pure innamorati, ma io sono io, un tipo solitario, quasi asociale, in un certo senso egoista, pigro, amante dei libri, geloso dei miei spazi nei quali mi rifugio per riflettere, creare, scrivere; sono uno che ama il silenzio ma anche le atmosfere fumose delle osterie di terza categoria e la compagnia di beoni ciarlieri in vena di filosofeggiamenti. Mentre Martina è Martina: trentenne sportiva, dinamica, pragmatica, lavoratrice instancabile, mondana, amante delle feste fighette, dello shopping e del calcio (tifosa sfegatata del Bologna). Roba lontana anni luce dal mio essere.
   Il nostro collante era il sessso, con tre esse di seguito, indispensabile nei rapporti di coppia, anche se non in grado, da solo, di cementarli. Consci di questo sin dalle nostre prime uscite, io e Martina ne abbiamo approfittato per il tempo che ci siamo concessi, perché quando il sesso diventa sessso bisogna darci dentro alla grande. Il sessso è sesso di livello superiore rispetto al normale. Non che facessimo chissà cosa, anzi, il nostro era privo di stranezze, posizioni ricercate o tempi interminabili, ma che bello! Che sintonia! Che orgasmi!
   Gli orgasmi femminili possono essere recitati a volte (beh, anche quelli degli uomini se è per questo) ma quelli di Martina erano sinceri, eccome se lo erano. Quando venivamo insieme era come entrare in un’altra dimensione per qualche minuto, uscire dal tempo e dallo spazio. E quando rientravamo dal viaggio in orbita rimanevamo accoccolati con un pieno di adrenalina che si sarebbe esaurito solo dopo molte ore.
   Come ho detto, una settimana dopo esserci lasciati rividi Martina. È rimasto il nostro ultimo incontro; dopo lei si è messa con un finanziere mentre io ho continuato la mia vita solitaria, cercando conforto nella mia amica birra, nei fratelli libri e in qualche rara compagnia interessante.
   Quell’ultimo incontro ha lasciato il segno, suggellando un rapporto comunque affettuoso e intenso. Posso definire il sessso che facemmo quella sera come il migliore della mia vita.
   Martina mi aveva telefonato nel pomeriggio per sapere come me la passavo.
   “Perché non ci vediamo a quattr’occhi per fare due chiacchiere?” aveva proposto.
   “Perché no?!”
   “Se vuoi venire a casa mia dopo cena sono sola e non ho impegni.”
   Suonai al citofono di casa sua alle 21 e 30. Appena aprì la porta mi saltò addosso soffocando sul nascere il mio “ciao” con un bacio appassionato. Cominciammo a spogliarci lì sull’uscio, in preda a una voglia animalesca. Spargendo vestiti per tutto il corridoio arrivammo in camera.
   Martina aveva un seno che pareva scolpito, non troppo grande, con due capezzoli rosei e tondi, perfetti. Mi ci attaccai e succhiai avidamente il loro turgore, fino a quando con un movimento repentino mi spinse sul letto e cominciò a leccarmi partendo dal collo, per passare ai capezzoli, poi giù all’ombelico, fino al pene che era ormai duro come granito.
   Mi venne sopra e dopo un po’ raggiungemmo il Nirvana, venendo insieme tra gemiti e sospiri. Non avevamo mai raggiunto un simile livello di estasi.
   Parlammo poco o nulla dopo, rimanendo abbracciati sul letto per un’altra decina di minuti, persi nei nostri singoli universi di pace.
   Salutai Martina conscio che sarebbe stata l’ultima volta che avremmo fatto sessso. Perché? Perché era stato il colpo di coda della nostra storia. Di più, di meglio, non potevamo fare, perché per fare sessso ci vuole l’amore. E il nostro amore era finito.


PARANOIE


Ero sull’autobus da soli dieci minuti e già mi sembrava di impazzire. C’era ancora mezz’ora prima di arrivare a Bologna, ma visto il traffico e la pioggia battente calcolavo che ci sarebbe voluto sicuramente un quarto d’ora in più.
   Ero salito sul mezzo alla fermata di Castello d’Argile alle 13.45 per andare alla presentazione di un’antologia culinaria in cui era pubblicata una mia ricetta; avevo partecipato alla selezione per gioco – essendo un cuoco amatoriale – proponendo il mio cavallo di battaglia: lo sformato di gamberi e patate con salsa di peperoni. Ai curatori dell’opera – un gruppo di chef emiliani – era piaciuto, così eccomi diretto nella location designata, il noto ristorante Giada in via Indipendenza, a comprare una copia di Ricette bolognesi dopo aver ascoltato la presentazione ed aver approfittato del buffet.
   Il problema grave stava nel fatto che ero salito sull’autobus sobrio. Solitamente mi bastano tre birre per trasformarmi in un essere umano normale, psicologicamente stabile, emotivamente equilibrato. Senza alcol in corpo sono un ricettacolo di paranoie, una bomba d’ansia.
   La prima para quotidiana a mandarmi a puttane il cervello era scoppiata appunto quando sul bus, alla seconda o terza fermata, un magrebino dalla faccia losca mi si era seduto di fronte.
   “Cazzo! Questo adesso fa una strage come a Parigi” pensavo. “Chissà cos’ha in quello zaino, e guarda che giubbotto largo che ha! Sarà sicuramente imbottito di tritolo. No, no, non pensarci, è solo uno con una brutta faccia, magari è un pezzo di pane come persona… Non guardalo però, che se gli gira male aziona la cintura esplosiva…”
   L’autobus procedeva a rilento.
  “Magari scende alla prossima, dai che scende alla prossima” ripetevo mentalmente come un mantra per rilassarmi.
   Alla prossima scesi io.
   “Che coglione che sono. Se lo racconto a qualcuno mi fanno internare in un ospedale psichiatrico” mi dissi.
   Adesso mi trovavo a una fermata sperduta tra Argelato e San Giorgio di Piano, con l’autobus successivo che sarebbe passato solo dopo un’ora. Non sarei più arrivato in orario per la presentazione, ma non me ne importava più nulla; la mia reazione paranoica al nordafricano mi aveva messo in uno stato di depressione. Per fortuna aveva smesso di piovere e a trecento metri da dove mi trovavo c’era un bar. La mia salvezza. Mi incamminai.
   Entrai al Bar Egidio e salutai il barista. A un tavolino erano seduti due tizi che bevevano caffè; somigliavano ai fratelli Righeira dei tempi d’oro, solo con lo sguardo più incazzoso. Ordinai una Ceres e un biglietto dell’autobus per tornare a Castello d’Argile. Mentre bevevo la birra seduto su un divanetto mi sentivo osservato.
   “Merda, questi sono sicuro due rapinatori” pensavo sentendo crescere l’ansia. “Adesso tirano fuori la berta e ci fanno secchi per due euro.”
   Tempo due minuti e i Righeira salutarono il barista dimostrando di conoscerlo da una vita, dopodiché uscirono nel parcheggio e salirono a bordo di un furgone dell’Enel.
   Il barista cercò di attaccare bottone parlando di una partita di Champion’s League del giorno prima, ma se c’è una cosa che disturba la mia labile psiche al pari di una paranoia è trovarmi di fronte una persona che vuole parlarmi di calcio, di politica o raccontarmi barzellette. Il rischio di sbroccare a causa di un attacco di panico è elevatissimo.
   Mi venne in soccorso una violenta contrazione intestinale, così chiesi se potevo usare gentilmente il bagno. Mentre espletavo le mie funzioni corporee…

PLOFF!

   Uno schizzo mi bagnò le palle.
   “Porca troia! Mi son scordato di tirare l’acqua prima di cagare… Chissà di chi era quel piscio… Che schifo!... Se non mi lavo subito le palle mi andranno in cancrena…”
   Dopo essermi pulito il culo con la carta igienica ed aver risciacquato abbondantemente lo scroto ero tornato a sedere al tavolino. Seccai la Ceres in un sorso e ne ordinai un’altra. In cinque minuti finii anche quella. Aggiunsi un Campari – ché Ceres e Campari sono le bevande alcoliche più ansiolitiche che esistano – e mi permisi persino due battute sul governo con il barista.
   Lo salutai con un “speriamo che domani la Juve vinca e passi il turno” e mi diressi verso la fermata. Questa volta l’autobus era semivuoto e comunque grazie alle “medicine” che avevo assunto al bar ero assolutamente rilassato e a culo col mondo.
   Quella sera avevo un appuntamento con Luisa, un’amica di facebook che però non avevo mai incontrato nella realtà; non ricordavo nemmeno se le avevo chiesto io l’amicizia oppure se lei l’aveva chiesta a me, fatto sta che alcuni giorni prima ci eravamo messi a chiacchierare in chat accordandoci infine per una birra al Sirius.
   Mi presentai al Sirius bello sereno e ubriaco. Bevemmo un paio di birre a testa e finimmo a letto la notte stessa, a casa sua.
   La mattina fui svegliato da un attacco di cacarella. Sbrigai la pratica velocemente e tornai in camera. Luisa dormiva ronfando pesantemente. Mentre mi rivestivo la paranoia mi assalì.
   “Oddio! L’ho fatto senza preservativo e ‘sta troia è sicuramente una di quelle untrici  che infettano gli uomini con l’aids o la sifilide per vendetta…”
   Uscii di casa senza svegliarla e andai al bar più vicino a fare colazione. Ordinai una Ceres rendendomi conto che dovevo andare al più presto a farmi vedere da uno bravo. Ma bravo bravo.


VOLEVO SOLO ESSERE NORMALE


Fossi stato meno sfigato alla nascita, forse me la sarei giocata alla pari con tutti, che era quello che volevo già da bambino, volevo solo essere normale, invece no, il destino – così lo chiamano – mi ha fatto partire con l’handicap.

   Vengo alla luce un freddo giorno di dicembre con un parto cesareo; pare non avessi alcuna voglia di mettere la testa in questo mondo. Quando mia mamma mi vede, portatole da un’infermiera, caccia un urlo che si sente per tutto l’ospedale.
   “Aaaaah mioddiooooooh!”
   Ho un occhio, un occhio del tutto simile ai due che ho in volto, appena sotto l’ombelico.
   I dottori non sanno spiegare una simile malformazione, non avevano mai visto né sentito di casi del genere.
   Mamma e papà non dicono a nessuno di questa cosa. Mi vogliono bene, ma si vergognano di una tale assurda particolarità. Anch’io, non appena il lume della ragione si accende insieme a quello del pudore, comincio a provare imbarazzo. Al mare, in spiaggia, i bambini giocano in costume e fanno il bagno. Io no, io indosso sempre una magliettina e non vado in acqua.
   “Perché non posso?” chiedo ai miei genitori.
   “Perché hai una malattia lì nel pancino” rispondono, “quando sarai guarito potrai fare tutto quello che fanno gli altri.”
   “Quando guarirò?”
   “Presto, speriamo.”
   Crescendo, senza che mi spiegassero nulla, capivo chiuso nella mia solitudine che quella stranezza o unicità mi avrebbe accompagnato per sempre, condizionando ogni mio passo. Ricordo che verso i dieci anni cominciai a odiarlo, l’occhio; giocavo a calcio e quando facevo la doccia con i miei compagni dovevo sempre coprirlo.
   “Cos’hai, perché porti un cerotto lì?” chiedevano.
   “Ho una cicatrice” rispondevo. “Mi hanno operato e devo proteggerla se no fa infezione.”
   Per anni ho raccontato quella balla, ma chissà cosa pensavano gli amici, che da bambini soprattutto, si sa, per quanto amici, possono essere veramente stronzi.
   “C’hai la figa sopra l’uccello, c’hai la figa sopra l’uccello, c’hai la figa sopra l’uccello…” mi canzonavano più tardi, verso i quindici anni.
   Tanto valeva dire la verità, ma non ce la facevo, la vergogna e la paura del giudizio altrui mi bloccavano. Smisi anche di giocare a calcio nonostante mi piacesse tanto.
   Devo precisare che con quell’occhio non vedevo e non vedo tuttora nulla; non ha collegamenti nervosi con il cervello. È lì e basta, aperto, con la palpebra immobile e l’iride dello stesso colore castano chiaro dei miei occhi normali. La pupilla però si allarga o si restringe a seconda della luce che la investe. Non so come spiegarlo: pur non vedendoci, con quell’occhio sento. Percepisco cose del mondo circostante che non sono né visibili, né udibili, né tangibili. Cose, appunto, inspiegabili.
   L’occhio ha condizionato pesantemente tutta la mia infanzia, l’adolescenza e di conseguenza, posso tranquillamente affermarlo, tutta la mia vita adulta. Il mio carattere introverso e spiccatamente asociale deriva in parte dall’occhio. Introversione e asocialità possono non essere grossi difetti (in certi casi possono addirittura essere considerati pregi) ma ero anche fragile e ogni piccolo insuccesso – dal prendere un brutto voto a scuola allo sbagliare un gol facile in partita – mi addolorava profondamente facendomi sentire un incapace. Più o meno inconsciamente incolpavo l’occhio.
   Ebbi la mia prima esperienza sessuale tardi, a ventun’anni, con una ragazza che frequentava il mio gruppo di amici (benché fondamentalmente asociale, ho avuto una vita sociale abbastanza normale), si chiamava Mirka ed era molo bella anche se un po’ scialba di carattere. Fu una prima volta traumatica: avevo fasciato l’occhio dicendole che mi avevano tolto una cisti, ma avevo comunque un’ansia esagerata e l’impaccio era totale. Riuscii ad avere un’erezione dopo molti minuti, minuti che mi parvero secoli, ma una volta entratole dentro fu veramente breve. Per un po’ mi sentii depresso dopo quel giorno.
   Per il resto non ho avuto una vita sessuale particolarmente brillante, ma nemmeno così triste. L’occhio condizionava pesantemente anche quella sfera dell’esistenza. Occasioni per mettermi insieme a delle ragazze ne ho avute molte, solo che non me la sentivo di rivelare il mio “segreto” e naturalmente troncavo la relazione dopo aver scopato qualche volta con grande appagamento (questo lo devo immodestamente ammettere!) di entrambi.
   Una volta mi sono anche innamorato, anzi, ci siamo innamorati; si chiamava Yara, mora, piccola ma perfetta nelle forme, e soprattutto acuta e simpatica. La lasciai in lacrime con una scusa che nemmeno ricordo dopo qualche settimana.
   Odiavo l’occhio. L’occhio mi teneva in catene. O ero io a voler stare in catene? A volte osservandolo me lo chiedevo.
   Verso i venticinque anni cominciai a bere pesantemente e a drogarmi con tutto quello che mi capitava sotto mano, dagli spinelli alla cocaina, dall’ecstasy alle amfetamine. A volte mi sembrava, quando ero in fattanza, che l’occhio si “spegnesse”. Altre volte invece mi sembrava “captasse” molto più intensamente.
   Una sera che ero fatto marcio decisi che mi sarei cavato quell’occhio maledetto. Da quando ero nato i dottori dicevano che era meglio non asportarlo perché non potevano prevedere le conseguenze. Io delle conseguenze me ne sbattevo. Presi un cacciavite e iniziai a tormentarlo deciso a sbarazzarmene una volta per tutte, ma appena spinsi la punta al centro della pupilla vidi come un potentissimo bagliore bianco e svenni.
   Quando rinvenni l’occhio era chiuso. La palpebra che era sempre stata aperta, immobile, ora copriva il bulbo oculare e una lacrima di sangue scendeva verso i peli del pube. Provavo un dolore inenarrabile. Sdraiato per terra in quel momento pensai al suicidio, l’unica via per smettere di soffrire fisicamente e non solo. Presi un mix di Valium, Aulin e Tachipirina e fregandomene delle possibili conseguenze mi addormentai. Partii per un viaggio onirico infernale. Feci sogni allucinanti, incubi dai quali mi svegliai – non so dire quanto tempo dopo – sudato e ansimante.
   Guardai l’occhio. Era aperto e non sanguinava più. Non sapevo se avevo sognato di aver cercato di cavarlo oppure ci avevo provato davvero. Non riconoscevo più la realtà dalla fantasia.
   Poco tempo dopo quel fatto mi licenziarono dalla ditta di giardinaggio per la quale lavoravo. Anche se il capo era mio zio, non poteva più tollerare le assenze che facevo per lo sballo della notte precedente o il presentarmi al lavoro ubriaco. Almeno così, a casa, che condividevo con mamma e papà, senza entrate economiche smisi di drogarmi e di bere; o meglio, smisi di drogarmi e limitai il bere. Ma soprattutto, con il tempo a mia disposizione mi misi a scrivere… Quando scrivevo l’occhio pulsava, non era mai successo. Cosa davvero strana: andava al ritmo dei battiti del cuore. La cosa più “strana” però era che quando scrivevo stavo bene, ero quasi felice.
   Con il passare degli anni capii che l’occhio era una parte essenziale (vitale!) di me. Era la porta che si apriva tra il sogno e la realtà, l’anima e il corpo, l’aldiqua e l’aldilà, la vita e la morte, il paradiso e l’inferno…
   Ho continuato a scrivere, cercando di tradurre sulla carta tutto ciò che l’occhio mi faceva sentire, che mi suggeriva, che mi ispirava. Ogni tanto trovavo qualche lavoretto a tempo determinato per rimpinguare un po’ le finanze (ho fatto il lavapiatti, il cameriere, il benzinaio, lo spazzino, il postino, il babbo natale fuori dai supermercati…) ma doveva essere un tempo determinato davvero beve perché poi l’occhio protestava che stavo perdendo tempo… Dovevo scrivere!
   Agli occhi della gente che mi conosce sono sempre sembrato una persona strana – figuriamoci a quelli di chi non mi conosce! – ma costoro non hanno il terzo occhio. Non sanno cosa voglia dire portarselo attaccato al fisico e all’anima dalla nascita.
   Poco tempo fa (ah quante volte cito questo fantasma beffardo di nome Tempo!) ho conosciuto una ragazza. Stavo attraversando uno di quei periodi di down necessari all’occhio per ricaricarsi, ché l’occhio è anche una specie batteria, di presa di corrente. Ero al Sirius e Laura si è seduta al bancone di fianco a me.
   “Posso offrirti da bere?” ha detto.
   “Certamente” ho risposto interrompendo le mie elucubrazioni pessimistiche. “Ho appena finito la terza birra e stavo giusto pensando di passare al rum.”
   “Due rum!” ha ordinato senza esitare Laura al barista.
   Abbiamo così iniziato a conoscerci. L’occhio mi “diceva” che quella ragazza era diversa e potevo fidarmi.
   Laura non era una gran bellezza, rientrava in un’ipotetica media: capelli castani ricci non troppo lunghi, occhi verdognoli, 1 e 60 circa di altezza, magra, pallida. Nei giorni seguenti a quel primo incontro ci siamo rivisti. Dopo un paio di settimane abbiamo fatto l’amore e ho scoperto di essere innamorato.
  La prima volta, per giustificare il cerotto sull’occhio, avevo inventato la solita scusa dell’operazione, ma sapevo che non potevo continuare con quelle balle. Ogni volta che provavo un orgasmo insieme a Laura, l’occhio vibrava.
   Lei era molto coinvolta e la nostra frequentazione è diventata assidua. Una sera, inevitabilmente, è successo.
   “Dimmi la verità, cosa nascondi sotto quel cerotto?”
   A quella domanda ho cominciato a tremare. Dovevo dirglielo? Ero a un bivio: se avessi continuato a mentire l’avrei persa presto e sarei rimasto un uomo misero e solo per il resto della mia vita. Sì, dovevo dirglielo. E così per la prima volta in vita mia ho mostrato l’occhio a una persona che non fosse mio padre o mia madre.
   Mentre lo facevo pensavo che non mi importava nulla della reazione che avrebbe avuto. Lei non si spaventò, parve anzi molto curiosa.
   “Raccontami” mi esortò.
   Così le ho raccontato la mia storia e più la raccontavo più mi sembrava di esistere, di essere unico, di essere importante almeno per qualcuno. Un po’ come quando scrivevo. Lei intanto mi osservava con una luce nuova negli occhi, che non riuscivo a interpretare. Finita la storia ho iniziato a piangere come se si fosse rotto qualcosa in me, come se una diga che arginava un mare di sentimenti si fosse sgretolata.
   “Fossi stato meno sfigato alla nascita, forse me la sarei giocata alla pari con tutti, che era quello che volevo già da bambino, volevo solo essere normale, invece no, il destino – così lo chiamano – mi ha fatto partire con l’handicap” ho sussurrato una volta ripresomi.
   “Tu non puoi essere normale, perché sei speciale” è intervenuta Laura. “È l’occhio a renderti tale, non l’hai ancora capito?”
   Mi carezzava con dolcezza i capelli arruffati.
   “Pensi esistano altre persone che hanno il terzo occhio?” ho chiesto.
   “Ma certo, cosa credi, di essere unico?”
   “No, no certo che no…”
   “Molti lo hanno all’interno, sul cuore per esempio. Non si vede ma c’è. Fortunatamente ne esistono altre di persone così.”
   “Magari lo avessi avuto io sul cuore! Non mi sarei sentito un mostro per tutta la vita.”
   “Credi sarebbe cambiato molto?”
   “Mah, chissà, sicuramente non sarei stato IO…”
   “Appunto. Discorso inutile. Visto che sei TU, segui la strada che solo il TUO occhio vede… Comunque, nascosto o no, tutti quelli che lo posseggono sono passati prima per l’inferno. Qualcuno per sua fortuna ha reso la sofferenza una grande opportunità, e forse è anche riuscito a vedere la Verità Suprema. Mi segui?”
   “Sì, credo di sì. Converrai però che avere l’occhio sotto l’ombelico è più limitante…”
   “Mah. Immagino che se un alieno con sei gambe e cinque teste camminasse per le nostre piazze si sentirebbe molto osservato, ma se fosse consapevole di chi è, se ne fregherebbe, anzi, consapevole del suo essere superiore – e ci vuole poco ad essere superiori al genere umano – andrebbe orgoglioso della sua diversità. Sii orgoglioso di chi sei.”
   “Non è facile.”
   “Nessuno dice che è facile. Per qualcuno è molto più difficile. Pensa per esempio a chi ha l’occhio in fronte, o su una guancia, o sul mento…”
   “Esiste qualcuno che ha l’occhio in fronte, o su una guancia, o sul mento?”
   “Non lo so, ma uso l’occhio come metafora per dire che c’è gente mooolto più “sfortunata” di te, gente senza gambe o braccia, gente paralizzata, gente senza naso, ustionata, deturpata… Ognuno ha il suo occhio e solo chi sfrutta le sue potenzialità può vivere una vita illuminata. Si chiama resilienza. Pensa a chi pagherebbe milioni per averlo dove lo hai tu…”
   “Non credo esistano dei pazzi simili.”
   “Pensa per esempio a chi ha perso un figlio. Pensa a un povero padre che riceve una telefonata in cui lo informano che la moglie e i due figli piccoli sono morti in un incidente.”
   “Fatico a seguirti.”
   “Eppure è così semplice. Per te è stata una tragedia avere un occhio nella pancia dalla nascita; ci sono persone che se lo trovano di punto in bianco nel cervello e devono affrontare tragedie immani. L’occhio diventa un tumore a quel punto, può uccidere. Oppure dare la forza. È impensabile superare certi dolori senza l’occhio. E tu ti lamenti!  Se un uomo senza le gambe può volare o se un uomo che perde un figlio può tornare a vivere, puoi farcela anche tu.”
   Abbiamo rifatto l’amore. Dopo, completamente nudo accanto a Laura, ho provato la sensazione di rinascere.
   “Sorridi alla vita e spargi la luce che proviene da qui” ha detto Laura carezzandomi il ventre intorno all’occhio. “Tu che hai questo raro dono, guarda oltre. Vai oltre.”