lunedì 10 ottobre 2016

L'ISOLA DELLE FARFALLE D'ORO

A questa favola sono legato perché esprime tutto l'amore che provo per i miei nipoti, non a caso l'ho dedicata a loro. Leggendo la premessa verrà probabilmente fuori anche il mio sempre vivo "senso paterno", nonché la mia passione per il lavoro di allenatore/educatore. Finché esistono i bambini e qualche adulto dal cuore puro, c'è ancora speranza per l'umanità. Questo il succo della storia. Oltre alla premessa allego il primo capitolo; se vi interessa vi mando il libro completo in formato word o pdf. Buona lettura. 
Purtroppo, per vari motivi, L'isola delle farfalle d'oro è stato il libro con la tiratura più limitata. I pochi ad averlo posseggono infatti una reliquia che quando sarò santo varrà tutto l'oro dell'isola...




A Giulia e Riccardo



PREMESSA


Oggi compio gli anni. Un’età importante. Di solito alla mia età si è già raggiunto un qualche traguardo o comunque si è sulla buona strada per raggiungerlo. Io invece sono ancora qui nei panni di un immaginario Peter Pan a giocare all’artista. E un artista, si sa, che lo faccia per gioco o lo sia per davvero, non dovrebbe mai omologarsi agli standard imposti, altrimenti si prosciugherebbe nella normalità. Egli custodisce gelosamente la propria diversità e non perde occasione di fare sfoggio della sua “licenza poetica”, che non è altro che la capacità innata, e affinata con l’esperienza, di vivere la vita seguendo i suggerimenti  della fantasia (e del cuore). Un artista inoltre ha l’obbligo, se vuole essere artista totale, di essere narcisista e presuntuoso: se uno scrittore, un pittore, un poeta, un attore, un musicista, uno scultore vi dice il contrario, diffidate immediatamente della sua arte e soprattutto della sua persona. Io sono innegabilmente narcisista e presuntuoso quel tanto che basta, altrimenti non avrei scritto e non sarei qui a presentarvi questa favola.
   Una favola? Questa è bella, penserà qualcuno che mi conosce “per sentito dire” o per aver letto i miei libri e racconti precedenti. L’uomo (e l’autore) che ha fatto della provocazione, della misantropia, dell’antireligiosità e dell’immoralità i propri cavalli di battaglia, come può scrivere una favola? E' come se Linus ripudiasse la sua coperta. Il discorso si fa lungo e complicato e non credo abbiate voglia di sorbirvi le mie incursioni nella filosofia manservisiana, però posso dirvi che ho scritto una favola per un motivo fondamentale: adoro i bambini e credo in loro quali unica salvezza per l’umanità. Ho la presunzione (ah beata presunzione!) di poter insegnare cose importanti per la loro crescita; d’altronde è anche per questo che faccio l’allenatore di calcio di “pulcini”, per trasmettere a questi futuri uomini il rispetto, la lealtà, la tolleranza, la sincerità, l’altruismo, la bontà; e stimolare di conseguenza la loro intelligenza, fino a risvegliare quella creatività che ognuno di noi, chi più chi meno, ha dentro. Tutte qualità queste che si trasmettono con l’imprinting dei primi anni di vita. Ovvio che un allenatore, un maestro, un animatore o un qualsiasi educatore possono fare ben poco se alla base c’è una famiglia “negativa”, comunque non bisogna arrendersi, altrimenti non ci sarebbe alternativa all’ignoranza. E quando c’è solo ignoranza è la FINE.
   Dicevo che adoro i bambini. In particolare adoro i miei nipoti. Infatti a Giulia e Riccardo dedico questo libro. Giulia è la primogenita di mia sorella Giorgia. Mentre scrivo ha quasi quattro anni, è vispa e intelligente, come prevedevo che sarebbe diventata (anche se la previsione era a più lungo termine) scrivendole questa lettera per il suo primo compleanno:


Carissima Giulia,
                               
questo regalo sotto forma di parole scritte lo potrai apprezzare in pieno solo tra molti anni, quando – lo so con certezza – sarai una ragazza intelligente, sveglia e arguta.
Oggi è il giorno del tuo primo compleanno. Pensa, un anno fa, mentre una parte della terra era sconvolta dallo tsunami, vedevi per la prima volta la luce di questo mondo sclerotico, rivelandoti ben presto anche tu un piccolo tsunami. C’era la luna piena il 26 dicembre 2004, segno premonitore del tuo arrivo e specchio del tuo caratterino, che fino ad oggi si sta dimostrando luminoso e vispo.
Esattamente un anno fa, ricordo che ero in camera mia a leggere un libro quando ad un certo punto la nonna Paola, dal bagno, disse al nonno che era in sala: “Rubens, si sono rotte le acque!”
“Vado a chiamare l’idraulico” rispose il nonno.
“Ma no, cus et capé! La Giorgia! Bisogna portarla all’ospedale, sta per partorire!”
Così andasti con mamma, papà e nonna all’ospedale di Bentivoglio, dove nascesti poche ore dopo. Da quel giorno, per me come per i tuoi genitori e i nonni, non esiste giornata triste. Grazie a te, ogni giorno splende il sole, anche se fuori diluvia.
Cosa posso augurarti per il tuo futuro? Innanzi tutto tanta serenità. E’ fondamentale per vivere bene questa vita, visto che ti verrà minacciata (la serenità) da più parti. Voglio darti alcuni consigli dall’alto o dal basso dei miei anni. Ascolta sempre il tuo cuore. Non dar retta a chi ti racconta favole solo per farti il lavaggio del cervello. Sii mentalmente indipendente. Sii curiosa e leggi tanto, che solo così potrai darti risposte e, cosa ancor più importante, porti sempre nuove domande. Cerca di vivere intensamente, come se ogni giorno dovesse essere l’ultimo. Conquista il tuo spazio di libertà e difendilo strenuamente dall’ignoranza, dall’omologazione, dalla stupidità, dall’intolleranza, dalla superficialità di questa società. Rispetta chi ti vuole bene perché, ricorda!, ci sono persone che darebbero la loro vita senza pensarci un secondo per la tua felicità. Semina amore, raccoglierai gioia. Stai molto attenta mia amatissima Giulia: crescerai in una giungla, metaforicamente parlando. Stai lontana dalla massa, perché la massa ti tiene ancorata al fondo. Cercheranno di renderti uguale alla maggioranza delle persone, ma tu non cascare nella grande trappola della mediocrità. Vola! Vola con la fantasia e l’intelligenza che sono sicuro non ti mancheranno. Ti auguro di cuore di diventare una donna unica e speciale, che si distingua per la particolarità del suo cervello e la luminosità della sua anima.

Con infinito Amore,
Zio Simone


   Riccardo invece è la new entry. Nato con un mese d’anticipo più di un mese fa, è l’altro topino di casa, un frugoletto che già amo con tutto me stesso. Mia sorella lo desiderava con tutta la forza che solo uno spiccato senso materno può avere. Ha tribolato parecchio prima che arrivasse, rischiando persino la vita con una gravidanza extrauterina. Forse non ci sperava più. E’ stato lì che per la prima volta nella mia vita ho pregato un qualunque dio o simil dio mi potesse ascoltare se fosse stato in ufficio. Gli ho detto: “Dio o come ti chiami o qualsiasi cosa sei, se fai in modo che mia sorella abbia questa gioia puoi prenderti in cambio la mia vita se necessario. La baratto più che volentieri per la sua felicità!”
   Che abbia o meno fatto in modo di sbrigare la mia pratica, poco dopo la richiesta Giorgia è rimasta incinta e quando è nato Riccardo la mia gioia è arrivata alle stelle; se quella sera aveste guardato il cielo avreste notato una luminosità particolare.
   “Ora posso morire sereno” mi sono detto. Però,  visto che vivere non mi dispiace affatto nonostante questo sia un mondo marcio, prima dell’eventuale dipartita da pagare come debito per il grande dono ricevuto, mi mancherebbero ancora due “opere” da realizzare: innanzi tutto devo vedere questa favola pubblicata. Secondo ma non meno importante, piacerebbe anche a me avere un figlio un giorno.
   E’ buffo come io che ho da sempre come più grande sogno realizzare una famiglia allargata, di quelle che un giorno ti ritrovi vecchio (il vecchio Simone, con una lunga coda di capelli bianchi e un’altrettanto lunga barba) con quattro o cinque figli e una decina di nipoti… E’ buffo che tutto il resto di me che non sia questo desiderio mi porti invece nella direzione opposta, e cioè rimanere un uomo solo. Avrò mai dei figli anch’io? Il mio essere egoartista, ovvero essere Simone Manservisi non sembra compatibile con questo grande anelito che mi porto dentro dalla prima adolescenza. Vedremo. Chissà. Magari il Grande Capo accoglierà anche questa mia richiesta. Finché c’è vita…
   Tornando alla “prima cosa da fare” e cioè pubblicare la favola: se la state leggendo significa che sono riuscito a pubblicare il libro. D’altra parte non ho dubbi; pensare che questa storia è il mio modo di dire a Giulia e Riccardo (e ai miei figli immaginari o un dì reali) che gli voglio un bene dell’anima e che questa dichiarazione d’amore rimarrà anche quando non ci sarò più, mi spinge con serenità a pubblicarla a qualunque costo. Pensare inoltre che tra queste pagine si possono incontrare tante piccole farfalle dorate pronte a trasferirsi nei cuori e nelle menti dei bambini (e degli adulti) che le leggono, mi dà un ulteriore stimolo a pubblicare. Questa favola non è una di quelle favole che ti vengono raccontate sin da piccolo da adulti, preti, politici, tv, giornali, ecc. per farti il lavaggio del cervello (come ho scritto nella lettera per Giulia) e tenerti ancorato al fondo; questa favola è per chi vuole fuggire da questo brutto mondo, e sa che è possibile farlo non solo con le ali della fantasia.
   Non mi resta che augurarvi BUONA LETTURA, BUON DIVERTIMENTO E BUONA VITA.

10 novembre 2008


1


Sedevano su una panchina fuori dal centro commerciale…




Sedevano su una panchina fuori dal centro commerciale, dove zio Simone aveva portato Giulia e Riccardo per farli giocare un po’ sulle giostre all’entrata del supermercato interno dopo avergli fatto scegliere i regali per il Natale imminente. Giulia aveva scelto la bambola di Bloom, una delle Winx, le fatine che spopolavano da qualche tempo tra i bambini della sua età, mentre Riccardo, più piccolino, era rimasto incantato da una semplice palla colorata e aveva optato per quella. Dopo numerosi giri sul cammello, il trenino e lo scooter meccanici, Giulia ne aveva avuto abbastanza e aveva pronunciato le paroline magiche che ogni bimbo conosce e alle quali nessun adulto può resistere se non pochi minuti: “Zio, ANDIAMO A CASA!”
   Erano usciti dall’imponente struttura rettangolare del centro commerciale e zio Simone si era seduto su una panchina in cemento rosa per allacciarsi una scarpa; Giulia e Riccardo lo avevano imitato per riposarsi. La giornata era soleggiata e particolarmente calda nonostante l’autunno stesse per lasciare posto all’inverno.
   “Se volete, intanto che ci riposiamo un po’, potete mangiare l’ovetto Kinder che abbiamo comprato” disse Simone una volta allacciatosi la scarpa.
   I due fratelli non ci pensarono due volte e scartarono insieme l’uovo di cioccolato.
   “Guarda Giuly, una Winx!” esclamò Riccardo. “Facciamo cambio sorpresa?”
   “Da me c’è una macchinina da montare. Tieni pure Ricky.”
   “Zio, me la monti tu?” chiese Riccardo con la bocca piena di cioccolato.
   “Da’ qua cippolippo” disse sorridendo zio Simone.
   “Zio, lo sai che è morta la nonna di Martina? E’ vero che è andata in cielo?” chiese all’improvviso Giulia. “E’ vero che le persone buone che muoiono vanno in paradiso?”
   Simone le carezzò i folti riccioli che aveva in testa e disse: “Non lo so se vanno in cielo o in paradiso. A dire la verità non lo sa nessuno. Però so che le persone a cui vuoi bene, quando muoiono rimangono dentro di te; entrano in una finestrella che c’è nel nostro cuore e lì vanno ad abitare. Così possiamo parlare con loro tutte le volte che vogliamo. E se stiamo molto attenti riusciamo a sentire anche le loro risposte.”
   “Davvero? Allora i morti ci parlano?” disse la bambina con lo sguardo perso nella sterminata spianata di cemento del parcheggio.
   “Sì, ma non aspettarti di sentire la loro voce. Ci parlano con il silenzio. E’ il bene… il bene che ci legava che ci guida come un lumicino nel buio. Forse sei troppo piccola per capire…”
   “No invece, capisco” interruppe Giulia quasi offesa per la considerazione dello zio. “Sono contenta per Martina. Se domani viene a scuola e piange ancora come ieri al funerale della nonna, le dico quello che mi hai detto. Sai, era tanto triste. Ho pianto tanto anch’io.”
   “Sei una brava bimba Giulia. Diventerai una bravissima donna.”
   “E Riccardo un bravissimo ometto, vero?”
   “Certo, Riccardino un bravissimo ometto” disse zio Simone allungando al nipotino la macchinina montata.
   “Guarda zio” disse Riccardo scoppiando a ridere, “questa macchinina sembra proprio il tuo macinino.”
   “E’ vero” confermò Giulia contagiata dalle risa del fratello.
   “Avanti cippilippi, andiamo a cercare il macinino che si va a casa.”
   Si alzarono e con i bimbi che non riuscivano più a smettere di ridere si misero a cercare la vecchia Polo dello zio nel parcheggio, che nel frattempo, mentre erano nel centro commerciale, si era riempito.
   “Ecco il macinino” disse lo zio dopo alcuni minuti di ricerche. “Tutti a bordo.”

lunedì 3 ottobre 2016

FAR WEST LAZIO - Il volo di Uccellino

Oggi vi propongo le prime pagine del libro Far west Lazio - Il volo di Uccellino, libro che racchiude una sentita intervista fatta da me a mio padre sul "calcio che fu" intervallata da considerazioni personali sul "calcio che è", sulla società alla deriva e sulla mia vita di predestinato. A cosa? Ai poster (!) l'ardua sentenza. 
Vi ricordo che ho copiato il testo da una versione "word" che non era quella definitiva; al massimo, forse, cambia solo qualche parola e c'è qualche refuso non corretto rispetto alla versione pubblicata. 




PREFAZIONE

di Pier Paolo Manservisi


Simone mi ha chiesto di scrivere la prefazione. Non sono molto pratico di queste cose, ma avendo in casa uno scrittore, eventualmente mi correggerà qualche errore e sistemerà la sintassi.
   Giusto ieri ho saputo che a maggio (il 12 per la precisione, data storica per i colori biancocelesti) ci sarà la festa-anniversario per i 40 anni dal primo scudetto laziale. Me lo ha detto il mio ex compagno di squadra, il portiere Felice Pulici dopo che una radio romana “aquilotta” mi aveva telefonato per una chiacchierata in diretta. Durante quei dieci minuti on air abbiamo ricordato i vecchi tempi e io ne ho approfittato, cogliendo la palla al balzo: ho fatto un po’ di promozione a quest’opera che Simone ha da poco terminato, dicendo al pubblico in ascolto che presto uscirà un libro che parla di quella nostra incredibile Lazio.
   “Mi raccomando, portatemene una copia” ha detto Felice.
   “Certamente” ho risposto con voce velata di orgoglio per il lavoro di mio figlio, che so essere un altro importante tassello, non solo della sua crescita letteraria, anche del suo percorso morale e spirituale di uomo libero.
   Ora speriamo che il libro sia pronto per quella data. Manca poco più di un mese e mezzo; Simone dice che ce la faremo, è consapevole e fiducioso del valore (perlomeno affettivo) di quello che ha scritto, lo vedo entusiasta. Ancor più entusiasta mi è sembrato quando gli ho detto di Roma, della festa, dell’Olimpico, dentro al quale non è mai stato. So quanto ci tenga a saldare i conti con il passato, so quanto desideri mettere piede nell’“arena dei ricordi”…
   Queste celebrazioni cadono a fagiolo, come si suol dire, sono una coincidenza che mi auguro di buon auspicio per il libro, per i sogni e i traguardi futuri del suo autore.
   Torneremo molto probabilmente a Roma dunque. Così come si dice che l’assassino torna sempre sul luogo del delitto, tutti torniamo sempre nei luoghi chiave del passato, luoghi a volte metafisici, luoghi dove l’anima ha messo radici. Si torna perché, come dice Simone, anche senza volerlo la vita è una spirale di cerchi che via via si ingrandiscono (qualcuno per la verità percorre la strada opposta, rimpicciolendoli…): per ingrandirsi devono tornare indietro e prendere energia dai cerchi più piccoli (ovvero il passato, la nostra storia). Il ritorno al passato è spesso il trampolino per fare il grande salto in un futuro evoluto.
   Ero già tornato allo Stadio Olimpico nel 2000 per il Centenario della Lazio (fondata nel 1900), dopo che la squadra aveva appena vinto il secondo scudetto. Fu una grande emozione e anche questa volta non sarà da meno. Rivedrò i miei vecchi compagni. Ricorderemo il passato con quel misto di nostalgia e pathos con cui lo ricordano le persone oltrepassata una certa età.
   Nostalgia e pathos permeano “Far West Lazio”, ma non si parla solo di Lazio tra le pagine di questo libro. Nell’intervista che Simone mi ha fatto, il tema centrale è “il volo di Uccellino”, partito da un paesino del Bolognese e, secondo la teoria filosofica di mio figlio, rimasto da allora e per sempre in cielo con le sue ali che sbattono al ritmo di un cuore innamorato della vita.
   E a proposito di vita: “Prima bisogna morire per imparare a vivere. Poi si può vivere per imparare a morire.” Questa me la suggerisce Simone qui a fianco, che sta supervisionando la mia introduzione.
   “Che c’entra?” gli chiedo.
   “Non credo che tutti lo coglieranno, ma dietro a queste parole si nasconde il significato profondo del libro. E non solo del libro…”
   Io non so se ho capito bene cosa voglia intendere con le parole che mi ha consigliato, ma so che “Far West Lazio – Il volo di Uccellino” è un libro che dovreste assolutamente leggere. 


“A Roma volevano che io giocassi come Ghio.
Mi ribellai. Io non sono un imitatore, ma un giocatore di calcio.
Alighiero Noschese avrebbe sfondato in quella squadra, io no.
Mi chiamo Pier Paolo Manservisi e gioco a modo mio.”
(da un’intervista del 1971)


RISCALDAMENTO


1


Vedo un bambino con un logoro pallone di cuoio a pentagoni neri tra i piedi. Vedo il suo sguardo sognante mentre calcia quel pallone contro il muro davanti a casa.

Tum… tum… tutum… tututum… tum…

Vedo i vicini osservarlo con un misto di affetto e disperazione. Vedo la vecchietta del palazzo di fronte aprire la finestra e gridare: “L’è ancoura longa? Socc’mel ec du maròn!”
Siamo nella prima metà degli anni 80. Il bambino è nel suo giardino, ma la sua mente è lontana, vola in un mondo parallelo.
   Lo sento anche quel bambino. Gli sento fare la telecronaca a voce alta della partita immaginaria che sta giocando in quel momento.

“Bellissimo stop al volo di Manservisi, che sembra volare sulla fascia destra del campo… Barbadillo cerca di rubargli la palla, ma Manservisi è un fulmine. Lo salta, salta anche Diaz, tornato nel frattempo in difesa ad arginare questo fiume in piena… Tunnel a Favero… Cross al centro per Caniglia… Colpo di testa di Caniglia… Fuori di un soffio!
   Ricordiamo ai telespettatori che è l’ultima giornata del campionato 1983/84 e la Lazio si gioca lo scudetto contro l’Avellino di mister Bianchi; chi delle due vince è campione d’Italia. Ma torniamo alla partita: palla ancora a Manservisi… È un’altra spettacolare e travolgente azione dell’ala figlia d’arte del grande Pier Paolo. Tiro improvviso! Zaninelli para.
   Mancano pochi secondi alla fine della gara. Petrilli passa a Williams, Williams per Rececchini, Frustavolpi, Frustavolpi avanza, lancio millimetrico per Manservisi che dribbla Colomba, tira… Goool! Gran gol di Manservisi. L’arbitro fischia la fine. La Lazio è campione d’Italia!”

   Sento il bambino urlare di gioia. Lo vedo festeggiare mimando abbracci e “cinque” a compagni invisibili. Vedo passare il postino con un’espressione al tempo stesso divertita e perplessa mentre osserva quel giovane balzano.
   “Dai Simone, vieni a fare i compiti!”
   La mamma risveglia il bambino dal suo sogno ad occhi aperti riportandolo con dispiacere nel mondo reale.

   Adesso quel bambino è un uomo e siede sul divano del salotto accanto a suo padre. Pier Paolo, il padre, campione d’Italia con la Lazio lo è stato veramente nella stagione 1973/74. Simone, il figlio, lo è stato solo nella fantasia. Ma proprio grazie alla fantasia Simone ha vinto il suo campionato, attraversando le tempeste della vita e crescendo sia come persona che come artista dopo aver individuato la propria strada.
   Padre e figlio siedono vicini ora, quest’ultimo ha un quaderno e una penna in mano. Che intenzioni abbia non lo sa nemmeno lui; sa solo che si sente uno scrittore vero e come tale vuole… fare luce.



PRIMO TEMPO


2


È un uggioso pomeriggio di dicembre, Natale è alle porte. Papà siede sul divano, io sono sulla poltrona singola al suo fianco. Poco prima gli avevo chiesto se potevo intervistarlo e ora mi sembra quasi di essere uno psicologo che sta per entrare nei ricordi e nella mente del suo paziente. Sono anche un po’ emozionato perché mi rendo conto dell’eccezionalità della situazione; voglio dire, io che intervisto papà per scrivere un libro… Vi garantisco che è una sensazione stranissima.

S.: Pa’, com’era il mondo negli anni ’50, il mondo paesano intendo, quando eri un bambino/adolescente?

P.: Partiamo da così lontano?

S.: Sì, vorrei sapere com’era il nostro paese, Castello d’Argile, nel dopoguerra, e come si divertivano i giovani.

P.: Argile era quasi tutta campagna. Fuori dalla piazza e dalle porte che delimitano il centro non c’era nulla. Gli svaghi erano pochi, ma con poco ci si divertiva molto (oggi mi sembra che i ragazzi non sappiano più divertirsi). Il pallone era il divertimento più grande. Dove adesso c’è il bar Toni prima c’era il campo sportivo. Quando lo smantellarono per costruirci il bar appunto, ci trasferimmo in un campetto accanto al cimitero. Lì si svolgevano partite interminabili, da dopo pranzo fino a ora di cena. Di solito le sfide erano giovani contro vecchi: noi giovani eravamo adolescenti, mentre i vecchi avevano sui venticinque, trent’anni.

S.: A scuola come andavi?

P.: Insomma, non mi piaceva molto andare a scuola. Sono arrivato alla settima elementare, poi il babbo (tuo nonno Luciano) mi ha messo davanti a un bivio: “Se non ti piace studiare, vai a lavorare” mi disse. Così a 12 anni ho iniziato a lavorare come barbiere nella bottega di un amico.

S.: Qual è stata la tua prima squadra?

P.: La Pejo Corticella, squadra di un quartiere di Bologna. Era il 1960, avevo 16 anni. In quel periodo feci diversi provini per squadre professionistiche insieme ad amici e coetanei del paese: Torino, Inter, Sampdoria. Mi voleva il Bologna, ma Giuliano Sarti, il famoso portiere della Fiorentina e della Nazionale (anch’egli di Castello d’Argile) mi portò a Firenze per un provino e dalla stagione 1960/61 mi trasferii nel capoluogo toscano, acquistato dalla società gigliata.

S.: A casa come la presero?

P.: Erano contenti, in particolare il nonno Luciano, il mio primo tifoso.

S.: Quindi hai fatto le giovanili a Firenze.

P.: Esatto, 3 anni fino alla stagione 1963/64, quando insieme al compianto Ugo Ferrante (successivamente campione d’Italia con i Viola, morto cinquantanovenne nel 2004 dopo una malattia) esordii in serie A: ultima di campionato, Bari – Fiorentina sul neutro di Pescara.

S.: L’anno dopo la Fiorentina ti dette in prestito alla Lucchese. Ti dispiacque molto trovarti in serie C dopo aver sentito il profumo della massima serie?

P.: Beh, un po’ sì, però a Lucca mi trovai benissimo. Vivevo insieme agli altri scapoli della squadra. Ricordo con nostalgia le vasche su e giù per via Fillungo…

S.: In che ruolo giocavi?

P.: Ala destra. A fine stagione misi in carniere un buon bottino: 8 reti.

S.: Prosegue quindi la tua carriera in Toscana.

P.: Già, l’anno dopo sono a Livorno in serie B. Non è stato un anno particolarmente bello; tra l’altro facevo il militare nella Compagnia Atleti di Roma e forse il rendimento sul campo un po’ ne risentì. La stagione seguente rientrai ancora a Firenze, dato che sia a Lucca che a Livorno ero in prestito. Questo è un aneddoto interessante: era la stagione 1966/67, ero ancora sotto la naja. La Fiorentina mi convocò per una partita, dandomi l’opportunità di ri-esordire in serie A. Partii alla volta di Firenze dalla caserma di Roma. A Grosseto mi dissero che non si poteva proseguire per la piena del fiume Ombrone; in treno iniziai un’odissea incredibile, dirigendomi verso Ancona, poi di nuovo fino a Bologna. Da Bologna raggiunsi Firenze in macchina. Era venerdì 4 novembre 1966. L’Arno era strariparo e io e i miei compagni di squadra ci ritrovammo allo stadio comunale a distribuire viveri agli alluvionati.

S.: Così, dal possibile ritorno in serie A, ti trovasti in serie B a Pisa, squadra alla quale ti cedette la Fiorentina. Giusto?

P.: Proprio così. Gran begli anni quelli sotto la Torre! Dopo un primo anno così così sul campo, arrivammo secondi alle spalle del Palermo e insieme al Verona salimmo in serie A. Quell’anno feci ben 13 gol, il mio record personale. Nel 1968/69, al mio terzo anno in nerazzurro, ero finalmente titolare in serie A. Peccato che retrocedemmo subito al termine di quella stagione.

S.: Eravate così scarsi?

P.: No, anzi, con un pizzico di fortuna in più ci saremmo potuti salvare. C’erano dei buoni giocatori in quella rosa: Gonfiantini, Piaceri, Joan, Mascalaito, Ripari.

S.: C’era già il mitico presidente Romeo Anconetani?

P.: Sì, ma non era presidente. Faceva il mediatore, una figura scomparsa, da non confondere con il procuratore. Fu lui che per la stagione 1969/70 mi fece trasferire al Napoli, squadra che scelsi preferendola al Verona, che pure mi voleva. A Verona allenava mister Lucchi, che avevo avuto a Pisa e col quale avevo un ottimo rapporto, ma Napoli era Napoli.

S.: Ok, grazie Pa’, per oggi finiamo qui con la fine della tua avventura in Toscana.