P.s. Il libro è doverosamente dedicato al grande scrittore Wallace Codroipo.
UN ANEDDOTO
Da bambino avevo sempre la testa
fra le nuvole; già a otto anni il mio passatempo preferito era disegnare
fumetti. Ricordo con un pizzico di sana nostalgia i pomeriggi passati a casa
dei nonni a inventare storie nell’attesa che mamma e papà tornassero dal
lavoro. Durante quelle ore di giorni lontani, chino sul tavolo da cucina che
nonna condivideva con me per fare la sfoglia, venivo letteralmente trasportato
in altri mondi, lontano mille miglia dalla realtà. Quanto mi piaceva! Quant’ero
felice nel Regno della Fantasia!
Circa sei mesi fa ho iniziato a scrivere questo libro. Non avendo
nessuno che mi corre dietro dandomi delle scadenze, posso permettermi di
lasciar fluire le parole solo quando l’ispirazione è all’apogeo, senza forzare
quegli stati di “normalità” che non producono nulla se non, appunto, normalità.
Ebbene, dopo aver scritto già diversi capitoli, un giorno mi capita di
aprire il cassetto dove custodisco, come fossero documenti di valore
inestimabile, i fumetti di cui parlavo: “Io e il pallone”, “I tre diavoli di
Parigi”, “Titanus”, “1995 la caduta del Bronx”, “Guerra per il predominio” sono
solo alcuni titoli ispirati a film e cartoni animati che guardavo all’epoca.
Tra quei cimeli trovo anche un quaderno intitolato “La ricerca della sacra
croce”, praticamente il mio primo testo narrativo in assoluto. Dopo chissà
quanto tempo lo rileggo emozionato e divertito; è una storia banale e piena di
errori ortografici e sintattici, ma avevo undici anni quando lo scrissi (la
copertina è datata 1985). Essendo “obbligato” a frequentare il catechismo, io
ero influenzato dalle favole che mi
raccontavano preti, suore e loro discepoli. Si nota bene ne “La ricerca della
sacra croce”, storia di un cavaliere inglese che parte dal suo castello alla
ricerca della croce dove era stato crocifisso Gesù. Passando attraverso mille
pericoli, che riletti oggi diventano di una comicità involontaria unica, trova
infine l’oggetto tanto bramato. Dopo aver piantato la croce sul monte più alto
d’Inghilterra (!) la pace regna finalmente nel mondo intero.
Quando sono arrivato alla fine mi sono accorto delle tante similitudini
che accomunano quella storia a questa, legate entrambe da un filo conduttore
tanto invisibile quanto solido che ha attraversato oltre un quarto di secolo.
Nel frattempo, nel corso degli anni, ho liberato la mente dal giogo delle
religioni e dell’ignoranza, ma non potevo certo cancellare quel messaggio
universale che accomuna tutti gli uomini dall’inizio dei tempi...
Anche con gli altri fumetti c’è molto in comune, avventure dove la
catarsi deve per forza avvenire dopo un lungo viaggio e una forte sofferenza.
Mi sono quindi chiesto se quello che l’artista crea da adulto non sia altro che
una continua rielaborazione (per arrivare a una sublimazione) dell’imprinting
ricevuto da giovanissimo. La risposta che mi sono dato è: non lo so!
Divertitevi.
Cronenberg, il ratto guardiano
del Mondemer, per dar tempo ai protagonisti di questo romanzo di truccarsi e
ripassare la parte, vi intrattiene citando ieraticamente, tradotte dal suo
linguaggio astruo:
“Raggiunto solo a prezzo di enormi sforzi, l’equilibrio psichico di un
artista è così delicato che ogni distrazione, ogni interferenza della cruda
realtà esterna possono distruggerlo in un attimo: per fare arte bisogna voltare
le spalle alla vita.” (Patrick McGrath – “Follia”)
“Nella vita, se uno vuol capire, capire veramente come stanno le cose
di questo mondo, deve morire almeno una volta.” (Giorgio Bassani – “Il
giardino dei Finzi-Contini”)
“Io non ho bisogno di fare delle frasi. Scrivo per mettere alla luce
certe circostanze. Diffidare della letteratura. Bisogna scrivere tutto come
viene alla penna, senza cercare le parole.” (Jean-Paul Sartre – “La nausea)
“Complessivamente, i tuoi libri esprimono un senso della realtà maggiore
di quello che esprimi tu.” (Philip Roth – “La lezione di anatomia)
“Certo, in un’epoca di pazzia, immaginare di essere immuni dalla pazzia
è una forma di pazzia.”(Saul Bellow – “Il Re della Pioggia”)
“E, ammesso che tu riesca a scappare, non potrai più tornare in
patria.”
“Bé, tanto peggio. E poi, la patria è dove ci si sente a proprio agio.
Io la sto ancora cercando.” (Truman Capote – “Colazione da Tiffany”)
“Che ci facciamo qui Grande Capo? Eh? Che ci facciamo qui noi due in
questo posto di merda? Andiamocene via, fuori.” (Jack Nicholson – “Qualcuno
volò sul nido del cuculo”)
1
Sono matto. È un dato di fatto.
Lo sono per la società che mi giudica, lo sono per la legge e lo sono perché un
essere umano che ha visto la luce e
si è messo in testa di raccontarla, non può essere che matto. L’unica
consolazione che mi accompagna in questo viaggio letterario, che descrive però
un’esperienza reale, è il fatto che solo i “matti” hanno da sempre raggiunto
mete e oltrepassato confini preclusi ai cosiddetti normali o sani di mente.
Tutto ha inizio con la nascita. No, non è corretto: solo questa storia
ha inizio con la nascita, la mia nascita, perché che ci crediate o meno, venire
al mondo non è che il culmine di un’incredibile concatenazione di eventi
fortuiti e logici e più o meno casuali che partono dall’inizio dei tempi e
proseguono ben oltre la morte terrena. Ora però non è il momento di
filosofeggiare, anche perché il filosofeggiare di un matto può interessare solo
altri matti e in questo mondo i matti sono emarginati, tenuti sotto controllo e
spesso messi al rogo perché temuti, metaforicamente parlando; se qualcuno di
loro mi sta leggendo potrei già considerarlo un successo clamoroso per questo
libro. Quasi un miracolo!
Dicevo dunque della mia nascita.
La teoria sopra accennata assumerà ora una concretezza pratica inconfutabile:
venerdì 18 maggio 1973 colui che di lì a qualche mese sarebbe diventato mio
padre giocò per l’ennesima volta in vita sua una schedina del totocalcio. La
sera di domenica 20 maggio stava osservando allibito i risultati sintonizzato
su 90° minuto. Se avesse azzeccato il 13 sarebbe diventato milionario, invece
il 12 che aveva in mano gli lasciava solo poche centinaia di lire di
consolazione. Aveva sbagliato un solo risultato, quello della sua squadra del
cuore, la neopromossa Lazio, che tra l’altro se avesse vinto sarebbe andata a
giocarsi lo scudetto in uno spareggio con la Juventus. Il Napoli però gli
aveva negato questa gioia come tifoso e soprattutto come scommettitore. Per un
solo risultato su 13 la sua vita non aveva svoltato economicamente. Ma come
tutti i piccoli e grandi eventi, gliel’aveva fatta svoltare per un’altra
strada, nella cui direzione sarei poi apparso io. Ora però era lì, davanti al
televisore in bianco e nero nel suo appartamentino della periferia romana che
non riusciva a staccare gli occhi da quel Napoli – Lazio 1 a 0. L’incredulità lasciò il
posto alla delusione e la delusione si trasformò in pochi minuti in rabbia.
Turbato e incazzato, il mio imprecante genitore si recò al bar sotto
casa e si ubriacò con una bottiglia di Punt e Mes; da una settimana aveva anche
perso il lavoro in una ferramenta e quando rientrò trovò sua moglie, la mia
futura madre, intenta a seguire un servizio del telegiornale che parlava della
strage avvenuta tre giorni prima davanti alla Questura di Milano, dove un
ordigno aveva causato quattro morti e decine di feriti. Questo particolare sul
cosa stava guardando mia madre alla tv può sembrare superfluo, ma col tempo mi
sono fatto l’idea che sono i particolari a fare la differenza, proprio come la
fece un gol segnato in una porta anziché in un’altra. Papà la prese con una
certa brutalità e proprio quella sera, uno spermatozoo su qualche miliardo
intraprese un viaggetto che lo avrebbe trasformato nel sottoscritto. Perché so
che accadde proprio quella sera? Perché anni dopo mia madre, nei panni di una
mosca, mi avrebbe mostrato come lei e mio padre non facevano l’amore (sarebbe
più corretto dire sesso) da mesi e per mesi dopo quella volta non lo fecero. Ma
questo lo capirete meglio più avanti.
Il 20 maggio di quell’anno, all’ultimo minuto dell’ultima partita di
campionato della stagione sportiva 1972/73, Oscar Damiani del Napoli infilava
la porta di Felice Pulici, portiere della Lazio. Entrambi non avrebbero mai
nemmeno sospettato di avere un ruolo fondamentale nel destino del figlio di un
uomo che viveva con la moglie in una palazzina di un quartiere fuori Roma.
Nemmeno gli altri giocatori in campo allo stadio San Paolo lo avrebbero mai
pensato, così come nessuno degli altri loro colleghi impegnati sugli altri
campi. Tutti quegli uomini erano nati da uomini e donne che non avrebbero mai
saputo di quest’uomo deluso dalla vita che si era ubriacato per non aver centrato
un 13 milionario quella maledetta domenica. Eppure, due, ventidue, decine,
centinaia, migliaia di persone erano coinvolte invisibilmente in
quell’apparentemente insignificante episodio, episodio che sarebbe culminato e
si sarebbe protratto con la mia nascita terrena. E la mia nascita avrebbe
influenzato altre decine, centinaia, migliaia di persone in modi talmente vari
e sottili che se ci si pensa si rischia di diventare… matti.
Per farla breve e semplificare le cose, basti pensare che se la Lazio quel 20 maggio avesse
battuto il Napoli, io sicuramente non sarei qui a scrivere un libro.
Mamma mi partorì diciotto mesi dopo la fuga per la vittoria dello spermatozoo ribelle, caso unico al mondo
che venne studiato da scienziati provenienti da ogni angolo del pianeta.
Nessuno però lo venne mai a sapere perché chi mi analizzava ritenne opportuno
non divulgare notizie a riguardo, nell’eventualità – almeno questo penso e
pensavo – che potessero scoprire in me segreti in grado di rivoluzionare il
mondo. Ciò non è ancora accaduto e dopo qualche anno il mio caso ha perso ogni
interesse scientifico, anche se ogni tanto venivo ancora sottoposto ad analisi
specifiche di ogni sorta, fisiche e psichiche.
Essere rimasto nel grembo materno il doppio del tempo della gente
normale ha avuto le sue conseguenze, negative e positive. Da piccolo per
esempio, ci mettevo il doppio del tempo a fare le cose che facevano gli altri:
camminare, parlare, apprendere. I miei genitori, che già avrebbero fatto
volentieri a meno di un figlio, avevano il sospetto che fossi un ritardato.
Anche i tempi di crescita e sviluppo fisico erano doppiamente lenti; solo il
naso cresceva il doppio e a velocità normale, tanto che mi sono poi ritrovato
adulto con un nasone ciranesco. Non
poche persone mi consideravano, con mia grande sofferenza, uno scherzo della
natura.
Ovvio che questa lentezza ha creato una serie di ostacoli anche nei
rapporti con i coetanei soprattutto da bambino: molti, per quella perfidia
propria degli esseri umani implumi, mi schernivano pesantemente dandomi anche
dell’handicappato. A casa ero privato dell’affetto di due genitori che, pur
senza cattiveria, mi detestavano nel profondo dei loro cuori. Papà poi, che
lavorava due mesi sì e tre no, aveva iniziato a bere forte, mentre mamma si
faceva il culo per tutta la famiglia lavorando al mercato ortofrutticolo e
invecchiando rancorosa.
Un aspetto positivo della mia stramba condizione era che la lentezza nel
crescere mi faceva invecchiare molto lentamente, tanto che a poco più di
vent’anni (quando questa storia entra nel vivo) sembravo un bimbo di poco più di dodici.
A quattordici anni, papà, dopo aver cercato di convincere senza
riuscirci un suo lontano parente a prendermi nel suo circo come tuttofare o
forse come fenomeno da baraccone, mi mandò a vivere da una zia zitella in un
piccolo paese del Bolognese: Casaldelbalengo. Ero abbastanza contento per
questa decisione; zia Amelia mi voleva bene e il paese emiliano era assai più
vivibile della città capitolina, anche se molto più bigotto e ottuso. Cominciai
a farmi qualche amico e soprattutto cominciai ad apprendere con maggior
velocità, colmando in breve tempo il gap intellettivo che mi separava dai
coetanei. Mi iscrissi a un liceo artistico di Bologna. Qui il mio strano aspetto
e quell’eccentricità che caratterizzava anche il modo di vestire erano
accettati o almeno tollerati. All’epoca adoravo indossare quasi sempre, estate
e inverno, una giacca marrone con toppe ai gomiti, camicia bianca con papillon
nero a pois bianchi, pantaloni scozzesi di un rosso sbiadito e clarks beige. Il
tutto, abbinato a capelli lunghi sempre spettinati mi faceva sembrare un vero e
proprio barbone. O un clown. Ma come detto, al liceo artistico “Andy Wharol” di
Bologna non importava a nessuno, se non a qualche raro professore un po’ retrò.
Mi specializzai in fumettistica, finendo la scuola con ottimi voti.
Avevo deciso di iscrivermi al dams ma nell’estate che separava le vacanze dalla
nuova avventura universitaria, accadde il patatrac. Durante la festa del
patrono, si teneva come tradizione la processione che portava la madonna di
Casaldelbalengo dalla chiesa al cimitero e viceversa. Quella sera io e un paio
di amici liceali eravamo nell’unico bar paesano a bere birra; io ne avevo
bevuta davvero tanta e preso dall’euforia scommisi un’altra birra che mi sarei
unito senza uno straccio addosso alla processione che stava sfilando in quel
momento fuori dal bar. Loro accettarono la scommessa senza dare peso alle mie
parole, ma quando videro che mi spogliavo si guardarono tra il divertito e
l’allibito. Pochi secondi dopo ero completamente nudo in fila davanti al
parroco, dietro la madonna portata da quattro chierichetti. Un paio di
vecchiette svennero, urla e fischi di biasimo si alzarono dalla lunga fila di
pellegrini. Un signore sulla sessantina mi strattonò e un altro mi coprì con un
lenzuolo.
“Conservate questo straccio” gridai, “diventerà più importante della
sacra sindone.”
Arrivarono i carabinieri e mi portarono via in stato d’arresto. “Sono il
vero Messia!” proseguii mentre mi
caricavano in macchina. “Credete a me, non credete alle cazzate che vi
raccontano quelli lì! Seguitemi o pecorelle smarrite, sono il vostro pastore…”
Gli amici che erano al bar con me non sapevano se ridere o preoccuparsi
seriamente.
Quello fu il primo segnale di squilibrio che mostrai in pubblico. Nelle
settimane successive ne diedi altri dopo essere stato in carcere per tre giorni
e sottoposto a una perizia psichiatrica che mi etichettò come “soggetto non
pericoloso ma imprevedibile, affetto da allucinazioni e manie di protagonismo”.
La goccia che fece traboccare il vaso fu quando mi incatenai al monumento al
centro della piazza con indosso solo un paio di boxer e una corona di spine
sulla testa. Sangue colava dalla fronte e dalle ferite che mi ero procurato sul
costato con una lametta.
“Lapidatemi se avete il coraggio!” urlavo. “Lapidatemi branco di farisei
soggiogati dal peso dell’ignoranza.”
Questa volta fu la Polizia Municipale
a intervenire. Mi portarono a casa da zia insieme a due assistenti sociali e a
uno psicologo. Le dissero che il mio stato si stava aggravando e forse era il
caso di trasferirmi in una struttura adeguata. Anche se ero già maggiorenne le
chiesero il consenso; lei lo diede a malincuore perché nessuno mi conosceva
bene come zia: sapeva che ero strano ma sapeva anche che il mio cuore era
rimasto puro come nei lunghi mesi trascorsi nella placenta materna, non
inquinato dalla follia, quella vera, degli uomini.
Prima del ricovero nel Centro di Igiene Mentale “Antonio Pitigrilli” di
Bologna passarono un paio di giorni dopo l’episodio dell’autoflagellazione in
piazza. Durante questo breve tempo che mi era concesso parlai molto con zia
Amelia anche se non avevamo mai avuto un grandissimo dialogo.
“Figlio mio” mi disse, “cosa ti sta succedendo? Perché fai tutte quelle
cose blasfeme e folli?”
“Zia cara” risposi, “Tu sola sai quanto ho sofferto sin da piccolo per
la mia diversità. Ho attraversato l’adolescenza sentendomi un inetto, un incapace,
un buono a nulla. Forse l’unica cosa che mi ha salvato dal suicidio sono stati
i fumetti, i miei amici immaginari che oltre a leggere creavo e che erano gli
unici a capirmi e a farmi compagnia. Sono sempre stato in bilico tra il
resistere e il morire. Se sono ancora qua lo devo a loro. L’arte mi ha
traghettato fino a questo porto seppure a fatica. Poi da qualche tempo è
successo qualcosa di strano: il mio corpo e la mia mente che hanno sempre
funzionato a rilento, si sono come scissi. La mente ingorda sta divorando tutto
ciò che ha intorno, mentre il corpo continua il suo trend solito di crescita al
rallentatore. Sembra quasi esserci stata un’esplosione nucleare nel mio
cervello. Libri e fumetti letti, esperienze vissute, sentimenti provati,
concetti, idee: tutto questo ha causato una reazione incontrollata in me. Ho
reagito in modi strani e la gente ha ragione ad avere paura. Ma zia amatissima,
ricorda, questo è solo il big bang della mia personalità e della mia esistenza.
Sono insano di mente per tutti questi ignoranti? E sia, ma se non vorrò farmi
incastrare dalla società, dovrò fare ancora molta strada e stare molto attento.
Sento che se seguirò la mia “folle” natura, scoprirò qualcosa di importante…
Una luce si è accesa dentro di me e adesso dovrò andare per la strada che
illumina.”
“Ma perché provocare a quel modo tutta quella gente?”
“Zia zia zia, cos’è il genio e cos’è la follia?!” canticchiai. “Non lo
so perché, ha fatto tutto il mio istinto sollecitato dall’esplosione cerebronucleare. Credo che volessi
dimostrare che sono più figlio del loro Dio io di tutti loro messi assieme.
Anzi, sai cosa ti dico? Io da oggi sono
Jesus! Ma adesso zia, non ti preoccupare più di niente, vado a farmi una
bella vacanza al manicomio.”